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Mamma, sei felice?

Ultimamente mio figlio ha preso l’abitudine di pormi quotidianamente questa domanda. Mi trovo sempre in difficoltà a rispondergli.

Sono una persona che prova disagio persino quando incontra un vicino di casa, un conoscente per strada, e si sente chiedere: “Come stai?”

So che è una domanda retorica, detta a mo’ di saluto, posta senza nessun reale interesse verso la risposta dell’altro, eppure faccio sempre un’immensa fatica a rispondere “bene” (che è l’unica risposta socialmente accettata) e, quando lo faccio, non ho un tono molto convinto.
Sto bene? Non lo so. Come faccio a saperlo? Chi mi può dare questa certezza?

E, quando mio figlio mi chiede se sono felice, con quei suoi occhioni grandi che mi fissano e sembrano riuscire a vedermi dentro, io non so bene cosa dire.

Non so esattamente cosa significhi essere “felice”.

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Anno nuovo: nuova forza, nuovi obiettivi.

Oggi, 5 gennaio, è un giorno speciale, perché sarebbe l’undicesimo compleanno della mia Diana… Ma lei non è più qui con noi, non fisicamente, almeno.
Per me questa è una giornata molto intensa, piena di emozioni e di ricordi.

Il mio bambino sa che la sua sorella pelosa ora è sulla luna e, a furia di ripeterglielo, me ne sono convinta anche io. Cerco la luna ogni sera, e per me è impossibile non sorridere, mentre la guardo.
E rivolgere un pensiero a lei.

Ciò che mi consola è che presto tutti sapranno che sulla luna c’è una cagnolina che si chiama Diana… Perché il mio prossimo lavoro sarà dedicato a lei.

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Mai fidarsi della vita (un mese senza Diana)

In questo periodo mi sento fagocitata dal dolore. Sì, ho detto proprio “fagocitata”.

Non amo questa parola, ha un brutto suono, non trovate? Eppure, è l’espressione che meglio esprime ciò che provo.

Fagocitare: accaparrarsi con prepotente avidità, incorporare, annettersi.

Nelle ultime settimane mi sono ritrovata a fare da confidente a persone che stanno soffrendo dolori inimmaginabili, dolori talmente potenti che, se dovessero penetrare nella mia vita, non so veramente come farei ad affrontarli.

Sono brava ad ascoltare. Mi piace ascoltare le storie degli altri e, soprattutto, mi piace pensare di poter offrire un po’ di conforto al dolore altrui. Anche se poi, quel dolore, diventa un po’ anche il mio, e mi fa stare male.

Anche io ho tanta sofferenza da cui vorrei liberare il mio animo. Spesso non lo faccio, per timore di gravare sugli altri, e poi, diciamo la verità, è difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltarti. Mi capita spesso di imbattermi persino in qualcuno che non crede alle mie storie di vita vissuta, soprattutto quando parlo della mia famiglia di origine.

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Cosa fai per vivere?

Quando fai conoscenza con qualcuno, una delle prime domande che inevitabilmente ti viene posta è: “Cosa fai per vivere?”

Mi trovo sempre a disagio nel rispondere.
Chi mi conosce bene sa che non amo stare ferma, e che un giorno sì e uno pure mi invento un nuovo obiettivo da raggiungere, una nuova sfida da affrontare. Non tutto mi riesce bene, certo, ma ci metto sempre il cuore, in ogni cosa che faccio.

Quando una persona mi pone quella domanda, però, so bene che quello che intende veramente è sapere quale sia il mio lavoro. Non vuole conoscere i miei sogni, le mie aspirazioni, i miei mille progetti…

E così, con un sorriso tirato, mi ritrovo a rispondere che sono impiegata in una grande azienda. Lavoro in un ufficio. Che è l’unica attività, tra tutte quelle che riempiono la mia giornata, a darmi uno stipendio… E che è pure quella che meno mi rappresenta!

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In viaggio

Mi ritrovo spesso a immaginare la mia vita come se fosse… Un treno.
Talvolta sono un Frecciarossa, che va veloce, senza fermarsi mai, dritto verso l’obiettivo.
In altre occasioni, invece, mi sento come un treno a vapore. Sbuffo un sacco e vado avanti a fatica!

Sul mio treno sono saliti tanti passeggeri, nel corso degli anni.
Qualcuno, senza neppure prendere il biglietto. Prima che me ne accorgessi e lo invitassi – più o meno gentilmente – a scendere, è passato parecchio tempo.

C’è chi si è buttato giù dal treno in corsa, senza neppure annunciare la propria decisione. Passeggeri che, così come sono apparsi, sono svaniti, lasciando un vuoto dentro me.

C’è anche chi è sceso e poi ha deciso di risalire a bordo, qualche stazione più avanti.

Qualcuno – pochi – si è seduto comodo e ha deciso di godersi il viaggio insieme a me.

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Cosa vuol dire essere infertili?

Oggi vorrei spiegarvi cosa significa NON poter avere figli.

Ricevere una diagnosi di infertilità è come vedersi rubare il futuro.

Immaginate di camminare tranquillamente per la strada e ritrovarvi d’un tratto, senza sapere come, senza aver mai sbagliato direzione, sull’orlo di un precipizio.

Una diagnosi di infertilità è una sentenza di infelicità.
Non appena ti senti rivolgere quelle fatidiche parole: “Mi dispiace, lei non può avere figli,” ti senti morire un poco dentro.
Una sensazione che non riuscirai mai a scrollarti di dosso. Di cui il tuo animo resterà per sempre impregnato.

Possono occorrere settimane, mesi, anni, per accettare questa sentenza, e spesso non ci si riesce neanche. Tante sono le coppie che soccombono sotto il peso di questa verità, troppo grande da sopportare, troppo faticosa da combattere.

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Rinascere.

Mi piace la Pasqua. Amo ciò che rappresenta, e amo i ricordi che fa riaffiorare alla mia mente.

La Pasqua rappresenta una data molto importante, per me.

Era la Vigilia di Pasqua quando ho incontrato Marito, quindici anni fa.

Era Pasqua del 2013 quando la Messa di un prete speciale mi portò ad esprimere, così, da un momento all’altro, come se fossi stata folgorata da un fulmine benevolo, un desiderio.
Se fossi mai riuscita ad avere un bimbo, mi sarebbe piaciuto sposarmi in quella stessa chiesa, e farlo battezzare nello stesso giorno…
Chi avrebbe mai detto che, solo due anni più tardi, l’avrei fatto veramente?

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Bye bye, provetta

Sono passati diversi giorni dall’ultima volta che ho scritto qui.
E intanto è trascorso il primo compleanno del mio rifugio virtuale. I blogger sono soliti festeggiare questa data, io sinceramente l’ho pure scordata.
E poi, che ci sarebbe da festeggiare? La nascita di questo blog coincide con l’inizio del mio inferno.

E’ passato anche il nono anniversario dell’incontro tra me e Marito. Era il primo maggio del 2004.
Solitamente festeggiamo questa ricorrenza, quest’anno ho trascorso metà giornata a letto, piangendo, urlando e accusando Marito di essere la causa del mio dolore, in preda ad un delirio pre-mestruale senza precedenti, mentre l’altra metà l’ho passata togliendo le zecche dai cani e da me stessa (eh sì, una è finita addosso a me, che culo), con conseguente disinfestazione del mio corpo e della casa.
Ah sì, dopo aver fatto pace, alla sera io e Marito siamo andati a mangiare fuori, e stranamente non mi sono ritrovata seduta vicino ad una donna incinta o ad una felice famigliola con neonato al seguito (di solito mi succede sempre).

In questi giorni sono in ferie, perciò oggi ho deciso finalmente di riconnettermi al blog e alla posta, sperando di trovare l’ispirazione per scrivere qualcosa di interessante.

L’ispirazione mi è passata non appena ho trovato nella posta due annunci di gravidanza.

Ora, non vorrei sembrare cinica, ma…
Un po’ di delicatezza, no?
Io non scriverei mai ad una sconosciuta che sta EVIDENTEMENTE male (o non si era capito? Posso essere più esplicita) per il fatto di non riuscire a diventare madre, con il solo scopo di vantarmi della mia felicità di essere incinta…
Ma gli ormoni fanno perdere la sensibilità e la saggezza alle donne?!

Un conto è se siamo amiche intime, seppur virtuali, se ci siamo scritte e parlate a lungo, se si è creato un certo rapporto di confidenza… In quel caso sì, certo che vorrei avere la notizia di una gravidanza, e ne sarei pure felice!
Ma se sei una sconosciuta, o una persona con cui ho parlato qualche volta, sinceramente della notizia mi importa ben poco.
Soprattutto se data con così poco tatto.

Sono invidiosa? E certo che sono invidiosa, cazzo.
Se fosse una cara amica a darmi una notizia del genere riuscirei a domare l’invidia per condividere la sua felicità, ma se è una sconosciuta a farlo, non ci provo neanche.

Mi sembra solo un modo per mettersi in mostra, per dichiarare il proprio successo, piuttosto che un modo per infondere coraggio ad una che non ce l’ha fatta.

Donne, per favore, quando CE LA FATE, ricordatevi di quello che avete provato quando il vostro sogno sembrava ancora irraggiungibile. Ricordatevi chi eravate. E ricordate che tante altre donne vivono ancora in un incubo.

Dopo questo lungo preambolo, arriviamo al dunque.

Marito si è finalmente sottoposto al test per la frammentazione del dna spermatico. Risultato: disastroso.
Frammentazione al 20%, superiore ai valori normali.
Questo significa che i suoi spermini, oltre ad essere immobili e anormali, presentano pure delle frammentazioni (delle “crepe”, diciamo). C’è una tecnica particolare, si chiama IMSI, che permette di scegliere gli spermatozoi privi di queste “crepe”, ma l’andrologo del centro PMA di Bologna ha comunque deciso di fargli fare una cura (che FORSE potrebbe migliorare un po’ le cose) prima di riprovare con la PMA.
La cura durerà tre mesi, quindi potremmo procedere con il prossimo tentativo non prima di settembre.

Il medico ha anche affermato che la sterilità di Marito è al 99% causata dagli orecchioni che ha avuto da ragazzino.
Ho chiesto a Marito di cercare di ricordarsi il nome dell’amichetto che gli ha attaccato la malattia. Ho intenzione di cercarlo.
E ucciderlo, ma dopo averlo torturato a lungo.

Tra qualche giorno avremmo dovuto sostenere il secondo colloquio per l’adozione, ma purtroppo dovremo annullarlo perché Marito ha un urgente impegno di lavoro (ecco il motivo scatenante del nostro litigio dell’altro giorno).
Il terzo colloquio, invece, era stato fissato per il sedici maggio, data che ho già dovuto annullare perché mi sono resa conto che proprio quel giorno ho una riunione importante per quel progetto lavorativo che sto seguendo.
Oltre a fare una figura pessima con l’assistente sociale, per affrontare il secondo colloquio dovremo aspettare il venti maggio. Per una come me, che detesta le attese (si era capito?), questa è una vera e propria tragedia.
Senza contare il fatto che entro fine luglio io spero di terminare la fase dell’istruttoria e di avere già in mano la relazione dei servizi sociali, in modo da poter presentare la domanda di adozione ai vari tribunali prima che chiudano, ad agosto. Così poi ce ne andiamo in ferie tranquilli, aspettando di essere chiamati dal giudice del tribunale di Bologna per il colloquio conoscitivo a settembre.

Visto che dovremo recuperare ben due colloqui (e forse ne dovremo pure fare altri), però, non so se questo sarà possibile. E vedere i miei piani stravolti mi fa incazzare da bestia.

Ma veniamo al titolo del post.
Beh, direi che non occorrono molti chiarimenti.

Basta con la PMA.

E’ da un po’ che questa idea mi frulla per la testa. Da quando abbiamo iniziato il cammino dell’adozione, per l’esattezza.
Pensavo che saremmo riusciti a fare tutto. PMA e adozione. Che bastasse la nostra forza d’animo per affrontare entrambi i percorsi. Che sarebbe stato il destino, o il caso, a decidere se il nostro bambino dovesse nascere in una provetta o nel grembo di un’altra donna.

Ma poi, giorno dopo giorno, sono stata assalita dai dubbi. E se la PMA fosse andata bene e avessimo interrotto le pratiche per l’adozione… E poi avessi perso il bambino al terzo o quarto mese? E se avessi partorito un bambino malato, o pazzo come mia madre? E se da qualche parte ci fosse un bimbo che aspetta noi, proprio noi, a cui potremmo donare la felicità e che ci potrebbe completare? Se fosse un’altra donna a dare alla luce MIO figlio?

E’ stato solo l’egoismo a farci decidere in principio di provare con la PMA. Il desiderio di avere un figlio tutto nostro, come la Natura ci impedisce di fare, e l’invidia verso le persone “normali”, a cui basta fare sesso per avere un bambino. Il desiderio di essere anche noi come tutti gli altri.

Ma, forse, noi non siamo come tutti gli altri. No, no, non intendo dire che siamo migliori o peggiori. Forse siamo solo diversi.
Basta pensare alla mia pazza famiglia o alla vita che ho vissuto per capire che no, non sono uguale agli altri. E se Marito sta con me, tanto normale non lo è neppure lui.

Io non mi sono mai vista con il pancione. Non parlo della realtà. Nella vita reale l’unico pancione che abbia mai avuto è quello dovuto al grasso.
Parlo della mia fantasia, dei miei sogni ad occhi aperti.
Non sono mai riuscita ad immaginarmi come una mamma. Di pancia, intendo.

Mentre mamma “di cuore”… Quello è sempre stato il mio sogno.
Vi ho già raccontato che anni fa, prima di scoprire i nostri problemi di infertilità, avevo proposto a Marito di adottare PRIMA di provare ad avere un figlio biologico?
A quel tempo, ve lo potete immaginare, Marito mi ha dato della pazza.
Invece, chissà, forse ho un sesto senso, forse dentro di me già sapevo come sarebbero andate le cose.

Non so se vi ho mai detto che amo scrivere. Intendo al di fuori del blog.
Ho alle spalle un paio di libri pubblicati. La scrittura per me è un po’ più di una passione ma, purtroppo, molto meno di una professione.
E’… Un sogno. Un po’ come quello di diventare madre.

Vi dico questo perché sono solita annotare sul computer le idee (che sul momento mi sembrano geniali) per nuovi racconti e romanzi.
Spesso questi spunti vengono poi abbandonati, per mancanza di tempo o di ispirazione.
L’altro giorno ho ritrovato in una cartella del pc diversi file, risalenti agli anni tra il 2008 e il 2010 (quindi, ben prima della scoperta della sterilità), contenenti bozze di storie abbandonate a metà.
Mi sono messa a rileggerle. Non ricordavo neppure di averle scritte!
Mi è venuto un colpo al cuore realizzando che almeno la metà di quelle storie ha come tema principale l’adozione… Sono tutti incipit che ho scritto a distanza l’uno dall’altro, non mi ero mai resa conto di quanto questo argomento fosse già profondamente vivo dentro di me, ancora prima di viverlo nella realtà.

So bene che essere mamma “di pancia” oppure “di cuore” sono due cose ben diverse. Oh, se me ne rendo conto!
Una mamma biologica è mamma a prescindere, nel momento stesso in cui suo figlio viene alla luce, una mamma adottiva, indipendentemente da quello che dicono i documenti, diventa “mamma” solo quando suo figlio decide che lo merita.

Avevamo deciso di provare con la PMA ancora una volta solo per egoismo, per questo desiderio di essere “normali”, e perché siamo convinti che i medici che ci hanno seguito finora abbiano sbagliato.

Ma forse tutto ha un senso. Aver dato fiducia ad un centro poco professionale, i tentativi falliti, questo ulteriore problema medico di Marito, la cura di tre mesi che ci ha fatto rimandare la PMA (io ero pronta ad iniziare questo mese)…

Forse tutto questo è un segno che la PMA non è la nostra strada.
Forse, invece, non vuol dire niente. Forse si tratta solo di sfortuna, di coincidenze, e non di destino.
Ma a me piace credere che sia così. Che abbia un senso.

Ora come ora il pensiero di una stimolazione ormonale, del pick up, del transfer con conseguente attesa colma d’ansia e timori…
Questo pensiero mi mette solo tristezza e paura.

Perciò, almeno per ora, dico “ciao ciao” alla provetta.

Adesso voglio concentrarmi sull’adozione.
A settembre, si vedrà. Se i servizi sociali avranno scritto una relazione positiva su di noi e potremo procedere con il prossimo passo, la provetta aspetterà ancora. Anzi, mi sa che non la vedrò più.
Se i servizi sociali ci avranno descritto come degli squilibrati, uccidendo le nostre speranze…
No, questo non può accadere.
Perché noi siamo destinati a diventare mamma e papà. Di cuore.
E io lo so da sempre.

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Quando dire basta

Da quando ho aperto questo blog mi sento meno sola. Non solo perché posso sfogare la mia frustrazione, la mia rabbia e il mio dolore nero su bianco, ma soprattutto perché ho avuto la possibilità di conoscere tante meravigliose donne che, come me, devono convivere con una diagnosi di infertilità, con un desiderio che si è trasformato in sogno, con un’ attesa che è diventata infinita e stancante.

Alcune hanno deciso di adottare anziché ricorrere alla PMA, altre sono all’inizio del cammino, altre ancora hanno alle spalle tanti, troppi, tentativi falliti, ma ancora sperano, altre ancora si sentono svuotate da ogni speranza e timorose verso il futuro, e altre ancora hanno deciso di arrendersi.

Non ho mai riflettuto molto attentamente sull’impatto che il racconto dei miei insuccessi potrebbe avere sulle altre donne, forse perché io stessa non vengo influenzata negativamente quando leggo di chi è al sesto o settimo tentativo e ancora non ce l’ha fatta… Sono sempre stata ingenuamente convinta (ultimamente un po’ meno, ad essere sincera) che le statistiche non contassero nulla, che io e Marito ce l’avremmo fatta in pochissimo tempo a realizzare il nostro sogno.

Ormai è passato più di un anno dall’inizio di questo calvario, e questa certezza comincia a venire meno.

E, leggendo le storie di queste donne, mi rendo conto che le parole hanno un peso, che chi mi legge non lo fa soltanto per sentirsi un po’ meno sola nella sconfitta, ma magari anche per ritrovare la speranza… Speranza che io non sempre riesco a dare. Chi si sta avvicinando per la prima volta alla PMA, leggendo i miei racconti, non è che possa sentirsi molto rincuorato, in effetti.

Gravidanza biochimica, iperstimolazione, mancato attecchimento… Direi che il bilancio non è molto positivo, soprattutto considerando che le probabilità sono dalla mia parte, essendo giovane.

Quando una donna mi confessa di sentirsi timorosa al pensiero della PMA, io cerco di infonderle speranza. Anche se ho perso la sicurezza dell’inizio, mi sento ancora molto agguerrita e fiduciosa verso la Medicina.

Allo stesso modo, però, non riesco e non posso giudicare o cercare di far cambiare idea ad una donna che ha deciso di dire “basta”.

C’è chi decide di desistere per sopraggiunti limiti d’età, perché ha provato numerose volte e non ce la fa più a sopportare il calvario analisi-ormoni-attesa-insuccesso, o perché ha preferito ricorrere all’adozione.

Ultimamente ho cominciato a riflettere molto su questo. Quand’è il momento di dire “basta”?

Io credo che questo momento sia altamente soggettivo. Io, per esempio, di fermarmi per ora non ne ho la benché minima intenzione.
Però… Da un anno a questa parte ho messo la mia vita in stand-by. Come dicevo, all’inizio io e Marito eravamo talmente convinti di farcela in poco tempo, che abbiamo rinunciato a programmare qualsiasi vacanza, gita fuori porta, impegni vari… Abbiamo persino rinunciato a comprare i biglietti per un concerto che ci interessava. Da un anno siamo (soprattutto io) concentrati soltanto sulla PMA.

Perché prenotare una vacanza? Perché comprare i biglietti per il concerto? Perché organizzare una cena tra amici? Perché accettare l’impegno lavorativo? Magari in quella settimana sarò sotto ormoni, oppure dovrò fare il pick up, oppure il transfer, oppure potrei essere incinta, e non ci potremmo andare!

Avete idea di cosa vuol dire vivere per un anno intero così? Rinunciare a tutto, anche alla cosa più banale, per una speranza che non si avvera mai, che viene sempre disattesa?

Bene. E’ arrivato per me il momento di dire “basta”. Non “basta” con la PMA, sia chiaro. Ma voglio smetterla di tenere la mia vita in pausa. Ora schiaccio il tasto “play” e ricomincio a vivere. A godermi tutto quello che posso godermi in una vita senza figli. E non importa se dovrò cancellare degli impegni presi, deludere qualcuno o perdere dei soldi perché proprio il giorno del concerto devo fare il pick up, o perché il giorno della riunione devo assentarmi per il transfer. La PMA verrà sempre prima di tutto, ma tra un tentativo e l’altro, tra una speranza e l’altra, c’è la vita da vivere.

Quando e se finalmente il mio sogno si avvererà, schiaccerò di nuovo il tasto “pausa”… Ma solo perché avrò qualcosa di molto più importante di cui occuparmi!

Proprio ieri sono stata convocata dal mio capo reparto. E’ raro che parli con lui, solitamente mi rapporto con capi più vicini a me nella gerarchia aziendale. Sapevo che si trattava di qualcosa di importante. Mi ha proposto (a dire il vero non mi ha dato la possibilità di dire “no”…) di seguire un importante progetto aziendale, che mi terrà molto impegnata e che mi obbligherà anche ad una trasferta a Milano.
Io non ho ambizioni di carriera, penso che questo sia evidente… Il mio sogno è quello di essere circondata da bambini e animali, di curare loro, la casa e Marito, non sono di certo il tipo che ambisce a stare in ufficio fino alle otto di sera.
Comunque, volente o nolente, io devo lavorare, perché il mio stipendio serve, perciò preferisco passare il tempo in ufficio facendo qualcosa di stimolante e magari anche gratificante.

Non è il mio obiettivo principale, ma è qualcosa che mi interessa.

Quando il capo mi ha “proposto” (ripeto, la sua non era una richiesta…) di occuparmi di questo progetto, la mia prima reazione, che ho tenuto per me naturalmente, è stata: “Ma proprio ora che sto facendo la PMA?”
Poi, però, mi sono resa conto che è ormai più di un anno che sto pensando solo e soltanto alla PMA, che rimando ogni impegno, che metto tutto in secondo piano. E, quindi, mi sono detta che questa potrebbe essere un’occasione per ricominciare, per distrarmi, senza mai dimenticare, però, l’obiettivo principale.

Non ho idea se questo impegno che ho “accettato”, o che sono stata costretta ad accettare, mi potrà piacere. Forse sarà solo una gran rottura di coglioni. In tutti i modi, voglio provarci.

Il capo reparto mi ha anche detto che è a conoscenza delle mie numerose assenze nell’ultimo anno, e che di certo non devo sentirmi in colpa per questo… Ci mancherebbe altro! Non mi sono mai sentita in colpa per essere stata a casa in malattia, dato che è un mio diritto e dato che lui è l’ultima persona a poter capire cosa sto passando. Credo che con la sua osservazione non volesse rincuorarmi ma, in realtà, ottenere esattamente l’effetto contrario… Ovvero farmi sentire in colpa e obbligarmi ad accettare questo impegno.

In tutti i modi, io ho colto la palla al balzo e gli ho fatto notare che i miei “problemi di salute” non sono stati risolti, che devo continuare le mie “cure”, ma che cercherò di rispettare gli impegni lavorativi, basta che mi vengano comunicati in anticipo… Ho fatto bene?

E se rimango incinta, saluti a tutti e il progetto se ne va a quel paese. Se quando torno dalla maternità decidono di piazzarmi uno stanzino lugubre a schiacciare dei tasti tutto il giorno, beh, peggio per loro. Non ci rimarrò male, avrò altro a cui pensare. Qualcosa che non è neppure paragonabile ad uno stupido progetto. Ma… Visto che quel “qualcosa” per ora non c’è… Meglio approfittare di ogni occasione che la vita mi regala. Anche se poi si tratta di una delusione. In fondo, anche con la PMA funziona così, no? Speri, speri, speri… E cadi a terra quando va male. Se va bene, però… E’ tutta un’altra storia.

P.S. Oggi ho fatto la prima eco di monitoraggio. Devo tornare sabato e, se tutto va bene, dovrei fare il transfer lunedì prossimo… Sempre che i bimbi sopravvivano allo scongelamento.