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La Diana sulla Luna

Possiedo la capacità, che in tante occasioni della vita mi ha salvato dalla follia, di riuscire a chiudere a chiave in un cassetto della memoria i ricordi più dolorosi.

E poi di scordarmi volontariamente del luogo in cui ho riposto la chiave, in modo che non possa riaprire mai più quel cassetto.

E poi ci sono ricordi che, semplicemente, sono così ingombranti da non riuscire a chiuderli da nessuna parte, e forse non vuoi neppure farlo. Perché, in fondo, quel dolore ti ricorda anche la felicità che l’ha preceduto.

Oggi, 8 novembre 2020, è passato un anno esatto da quando Diana se n’è andata… Sì, era “solo” un cane agli occhi del mondo, ma, nella mia vita, rappresentava molto di più.

Anche se non vorrei, ricordo alla perfezione ogni dettaglio di quella giornata terribile.

L’immagine che mi viene subito alla mente quando ripenso a quei momenti è il modo in cui ho spazzolato il pelo della mia cagnolona, dopo che il veterinario aveva eseguito l’eutanasia. Il suo spirito non c’era più, il suo corpo immobile, eppure io mi sono messa a spazzolarla, da sola, nello studio del veterinario avvolto da silenzio.

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Anno nuovo: nuova forza, nuovi obiettivi.

Oggi, 5 gennaio, è un giorno speciale, perché sarebbe l’undicesimo compleanno della mia Diana… Ma lei non è più qui con noi, non fisicamente, almeno.
Per me questa è una giornata molto intensa, piena di emozioni e di ricordi.

Il mio bambino sa che la sua sorella pelosa ora è sulla luna e, a furia di ripeterglielo, me ne sono convinta anche io. Cerco la luna ogni sera, e per me è impossibile non sorridere, mentre la guardo.
E rivolgere un pensiero a lei.

Ciò che mi consola è che presto tutti sapranno che sulla luna c’è una cagnolina che si chiama Diana… Perché il mio prossimo lavoro sarà dedicato a lei.

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Mai fidarsi della vita (un mese senza Diana)

In questo periodo mi sento fagocitata dal dolore. Sì, ho detto proprio “fagocitata”.

Non amo questa parola, ha un brutto suono, non trovate? Eppure, è l’espressione che meglio esprime ciò che provo.

Fagocitare: accaparrarsi con prepotente avidità, incorporare, annettersi.

Nelle ultime settimane mi sono ritrovata a fare da confidente a persone che stanno soffrendo dolori inimmaginabili, dolori talmente potenti che, se dovessero penetrare nella mia vita, non so veramente come farei ad affrontarli.

Sono brava ad ascoltare. Mi piace ascoltare le storie degli altri e, soprattutto, mi piace pensare di poter offrire un po’ di conforto al dolore altrui. Anche se poi, quel dolore, diventa un po’ anche il mio, e mi fa stare male.

Anche io ho tanta sofferenza da cui vorrei liberare il mio animo. Spesso non lo faccio, per timore di gravare sugli altri, e poi, diciamo la verità, è difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltarti. Mi capita spesso di imbattermi persino in qualcuno che non crede alle mie storie di vita vissuta, soprattutto quando parlo della mia famiglia di origine.

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La Diana sulla Luna

La prima cosa che Robertino fa, ogni sera, quando torna dall’asilo – dopo aver chiesto un pezzo di cioccolato – è salutare le sue cagnoline. Diana e Yuma.
Ma quel venerdì sera maledetto, c’è solo Yuma ad aspettarlo. Non se ne accorge subito. È così abituato alla loro presenza, da considerarla una cosa… Scontata. E la possibilità che non possano più esserci, impossibile.

“Mamma, dov’è Iaia?”
“Siediti, tesoro. Devo dirti una cosa. Ti ricordi che Diana era molto ammalata, vero?”
“Sì. Bua al pancino.”
“Esatto. Aveva molto male al pancino. Ecco, stava così male che è dovuta andare via.”
“Per sempre?”
“Purtroppo, sì.”
Sgrana gli occhi. Non ho mai visto quello sguardo negli occhi del mio bimbo.
“E non tornerà mai più?”
“No, amore mio. Mai più. Mi dispiace tanto.”
Roberto piange. Mai lacrime mi hanno fatto più male.

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YuyuYaya (ciao, Diana)

YuyuYaya. È così che, per anni, mio figlio ha chiamato il luogo in cui vive. Si rifiutava proprio di dire la parola “casa”, e solo a fatica nelle ultime settimane la logopedista è riuscita a convincerlo a pronunciare questa, apparentemente semplice, parola.

Per lui casa è YuyuYaya.

Ciao, bibì! Io vado da YuyuYaya!” diceva, con entusiasmo, all’uscita dall’asilo, e ovviamente nessuno lo capiva (non che la cosa gli importasse più di tanto).

In realtà un po’ mi dispiaceva che la logopedista volesse a tutti i costi convincerlo a fargli abbandonare questo curioso modo di dire. Io lo trovavo così dolce, tanto che ogni volta mi veniva da sorridere.

Già, perché YuyuYaya non è una strana parola in dialetto bambinesco. Non è neppure uno scioglilingua assurdo. Yuyu e Yaya sono i nomi dei nostri cani: Yuma – detta YuYu per gli amici – e Diana – che mio figlio ha ribattezzato Yaya.

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