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YuyuYaya (ciao, Diana)

YuyuYaya. È così che, per anni, mio figlio ha chiamato il luogo in cui vive. Si rifiutava proprio di dire la parola “casa”, e solo a fatica nelle ultime settimane la logopedista è riuscita a convincerlo a pronunciare questa, apparentemente semplice, parola.

Per lui casa è YuyuYaya.

Ciao, bibì! Io vado da YuyuYaya!” diceva, con entusiasmo, all’uscita dall’asilo, e ovviamente nessuno lo capiva (non che la cosa gli importasse più di tanto).

In realtà un po’ mi dispiaceva che la logopedista volesse a tutti i costi convincerlo a fargli abbandonare questo curioso modo di dire. Io lo trovavo così dolce, tanto che ogni volta mi veniva da sorridere.

Già, perché YuyuYaya non è una strana parola in dialetto bambinesco. Non è neppure uno scioglilingua assurdo. Yuyu e Yaya sono i nomi dei nostri cani: Yuma – detta YuYu per gli amici – e Diana – che mio figlio ha ribattezzato Yaya.

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Cosa vuol dire essere infertili?

Oggi vorrei spiegarvi cosa significa NON poter avere figli.

Ricevere una diagnosi di infertilità è come vedersi rubare il futuro.

Immaginate di camminare tranquillamente per la strada e ritrovarvi d’un tratto, senza sapere come, senza aver mai sbagliato direzione, sull’orlo di un precipizio.

Una diagnosi di infertilità è una sentenza di infelicità.
Non appena ti senti rivolgere quelle fatidiche parole: “Mi dispiace, lei non può avere figli,” ti senti morire un poco dentro.
Una sensazione che non riuscirai mai a scrollarti di dosso. Di cui il tuo animo resterà per sempre impregnato.

Possono occorrere settimane, mesi, anni, per accettare questa sentenza, e spesso non ci si riesce neanche. Tante sono le coppie che soccombono sotto il peso di questa verità, troppo grande da sopportare, troppo faticosa da combattere.

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Dieci anni

C’era una volta un bel ragazzotto di venticinque anni, magro, dallo stile sfattone-chic, con la testa piena di sogni, che cercava una ragazza per una storiella poco seria. La cercò nel luogo più adatto per beccare delle grandi sòle: internet. Tra i profili di MSN, per l’esattezza.

Di tutte le ragazze contattate (ovviamente scelte in base alla grandezza delle tette mostrate nelle foto del profilo), solo una rispose.

Lei aveva diciassette anni ma fingeva di essere maggiorenne, era grassoccia, dallo stile cafon-trash, con una chioma indefinibile. Esattamente l’opposto della foto del profilo che aveva attratto l’incauto internauta dagli ormoni impazziti.
La foto non era quella di una modella o di chissà chi; ritraeva la stessa ragazza pochi anni prima, quando era decisamente più magra.
Una bella foto in riva al mare, posa sirena. Lei, sinceramente, non voleva ingannare nessuno, non sentiva di essere tanto diversa dalla ragazza della foto, ma forse le calorie le avevano offuscato la vista.

Dopo qualche convenevole in chat, Lui e Lei si incontrarono, in un pomeriggio di aprile.
Inizialmente il luogo fissato per l’appuntamento al buio era la piazza centrale della città, ma all’ultimo Lui decise di cambiare. Aveva nasato la sòla e non voleva rischiare di farsi vedere in giro con una budrigona.
Così i due si incontrarono davanti ad un campus universitario totalmente deserto, dato che era sabato e, tra l’altro, la Vigilia di Pasqua. Furbo il ragazzotto!

Quando Lei arrivò, Lui sarebbe voluto scappare, ma non lo fece per educazione. Si strinsero la mano e non potevano sapere che quello sarebbe stato il momento che avrebbe cambiato per sempre le loro vite.

Lui la invitò a salire in macchina per andare a fare un giro, e si meravigliò del fatto che Lei accettasse senza alcuna remora; cavolo, poteva essere un serial killer!
Ma Lei non aveva paura del pericolo: sentiva di non avere molto da perdere. La vita le andava stretta e credeva di non doversi aspettare più niente di bello.
Il viaggio in macchina durò poco, perché si infrattarono subito in un parcheggio dell’università. Dopo qualche convenevole di cui nessuno dei due avrebbe in futuro ricordato i dettagli, si baciarono.
Un bacio, sinceramente, non di certo generato dall’amore, quanto dalla noia della conversazione e dagli ormoni su di giri causa astinenza.

Potrei rendere la storia più romantica parlando di un fantomatico colpo di fulmine, ma… Sarebbe una bugia. E poi, in fondo, ‘ste robe così sdolcinate capitano solo nei film o nei romanzi di Rosamunde Pilcher.

Da quel giorno Lui e Lei continuarono a vedersi. Lei, da brava ragazzina romantica qual era, si innamorò molto presto. Lui non osava ammettere il suo amore, però in fondo, dentro di sé, pensava: “Oltre alla ciccia c’è di più!”

Il primo maggio del 2004 Lui le chiese di mettersi insieme, insomma, di fare coppia fissa.

Dieci anni dopo, Lui e Lei sono ancora insieme. Ora sono marito e moglie.
Voi li conoscete come Eva e Marito.

Il grasso corporeo si è magicamente spostato da Lei a Lui (è il karma, gente), anche se, a causa degli ultimi sviluppi, Lei sta tornando ad essere un tortello che manco sua nonna li fa tanto ripieni. Stavolta, però, non è la ciccia a gonfiarla!

Ha trovato un suo stile, che Lui definirebbe old-chic (da vecchia, insomma), mentre la sua chioma è rimasta sempre indefinibile, un misto tra Justin Bieber-Giovanna d’Arco-Noel Gallagher.
Lui si è trasformato in un fighetto in giacca e cravatta, ma l’animo è sempre lo stesso.

La loro storia non è mai stata facile. Neppure all’inizio. Non hanno mai vissuto su una nuvoletta rosa. Quando erano più giovani amavano sognare, e ci riuscivano, nonostante tutte le difficoltà. Quando si è giovani si pensa di poter fare tutto.
Poi hanno scoperto che non è così.
Hanno scoperto che certi sogni, anche quelli più puri, innocenti e legittimi, possono essere duri da raggiungere, possono distruggerti, abbruttirti, intristirti.

Ma hanno resistito.
Hanno litigato, si sono detti brutte parole, Lui ha dormito spesso sul divano, Lei gli ha dato qualche schiaffo, entrambi hanno spaccato qualche porta e suppellettili vari.

Ora, però, sono felici. Anche se non è ancora una felicità totale, completa, priva di ombre.
Chissà. Forse, quella felicità non esiste neppure.

E’ difficile convivere con una futura mamma paranoica in preda agli ormoni che ha paura persino a salire le scale.
Ed è altrettanto difficile convivere con un marito che, se gli chiedi di comprare il latte e lo shampoo al supermercato, torna a casa con i Kinder cereali e il vino.

Lui, Lei e bimbe pelose tra poco diventeranno Lui, Lei, bimbe pelose + bimbo umano.
E scopriranno quella felicità che sognano da quando erano due ragazzi che, seduti al tavolo di un bar, sfogliavano i volantini delle agenzie immobiliari e sceglievano il nome del loro futuro bambino.

Sono passati dieci anni.

Ho abituato bene Marito.
Gli ho sempre fatto dei bei regali, soprattutto per gli anniversari.
Considero questa data forse addirittura più importante di quella del nostro matrimonio. In fondo, è da quel primo maggio che tutto è iniziato.

Quest’anno avrei voluto fargli un regalo grandioso… Dieci anni non si festeggiano tutti i giorni.
Ma ecco un’altra cosa di questo strano 2014 che sarà diversa da come me l’aspettavo, oltre al fatto che oggi non sarò presente all’unica data italiana del mio cantante preferito.
Quest’anno non ho preparato regali. Mi sarebbe stato un po’ difficile andare a comprare qualcosa, dato che attualmente non sono autonoma dal punto di vista del trasporto e Marito mi deve scarrozzare ovunque.
E poi, diciamolo, ho la testa da un’altra parte.
In fondo, il regalo più bello è proprio qui, dentro di me.

Caro Amorino,
Non so se l’hai capito, ma questa lettera, chiamiamola così, è per te.
No, non ti ho copiato. Avevo questa idea già da diversi giorni. Tu stamattina mi hai fatto trovare una bella letterina scritta a mano.
So che sei allergico a questi nuovi metodi di comunicazione, tanto che quando sei arrabbiato minacci di “taggare” e “twittare” a detra e a manca… Perché non hai idea di cosa significhino questi termini. E quindi li usi a casaccio!
Devi sapere, però, che, al giorno d’oggi, se non spiattelli tutto su internet i tuoi sentimenti non sono reali. Ciò che non è sul web non esiste.

Perciò, visto che noi (r)esistiamo, il nostro amore (r)esiste, e presto esisterà anche il suo frutto…
Voglio dirti davanti a tutti (o, almeno, a chi leggerà ‘sta pappardella), che ti amo e che secondo me sarai un bravissimo papo (anche se non ti informi su internet come me).
E che lo sarai ancora di più se farai come ti dico io 🙂

Spero che leggerai presto questa lettera… O qualsiasi cosa sia. Ultimamente hai cominciato a sbirciare spesso sul mio blog, perciò mi auguro che la troverai senza che ti dia alcun indizio…

Ma, ovviamente, oggi sarà l’unica giornata in cui non passerai di qua e mi toccherà indirizzarti e rovinare la sorpresa…

Il delirio è finito, andiamo a festeggiare!

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La sacra famiglia

No, il titolo di questo post non si riferisce a Giuseppe, Maria e il bambin Gesù, ma rimanda alla dichiarazione fatta pochi giorni fa da Guido Barilla, di cui probabilmente avrete letto sui giornali (altrimenti l’articolo è qui).

Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale.

Non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale

E inoltre:

Nell’intervista volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all’interno della famiglia

Queste sono alcune delle frasi pronunciate dal dott. Barilla. Queste parole mi offendono, e molto, perché io sono sempre stata contraria alla discriminazioni di ogni genere.

Inoltre, ma questo non tutti sono riusciti a coglierlo, affermazioni di questo tipo non offendono soltanto gli omosessuali, ma anche le donne.

Cerchiamo di capire quale sia questa fantomatica famiglia classica che piace tanto alla Barilla e all’italiano medio…

Dalle pubblicità della suddetta azienda, ma potremmo prendere ad esempio un lo spot di un qualsiasi detersivo o cibo, e dai commenti che sento in giro e che leggo su internet, la famiglia perfetta è quella composta da un uomo e una donna e diversi figli, concepiti in maniera naturale, e ovviamente bellissimi, intelligentissimi ed educatissimi.

L’uomo e la donna, ovviamente, si sono sposati in chiesa con ricco ricevimento a cui hanno partecipato almeno cento persone.

Ovviamente la donna si sveglia prima di tutti per preparare, con il sorriso sulle labbra, una lussuosa colazione, che durerà un paio d’ore, per marito e figli. Poi l’uomo va al lavoro, mentre la donna veste, lava e poi accompagna i bambini a scuola; infine, sempre con il sorriso sulle labbra, torna a casa per spolverare e lavare i pavimenti, naturalmente senza osare sbuffare o lamentarsi.

L’apice della sua giornata viene raggiunto quando scopre un nuovo prodotto per la pulizia o quando riesce a togliere le macchie di vomito, sugo o fango dalla maglietta del bimbo.

Se invita le amiche a casa è solo perché ha organizzato la presentazione di un qualche prodotto cosmetico o per consigliare loro una nuova aspirapolvere dai poteri magici.

Quando alla sera il marito torna a casa la donna è pronta a servirgli un’ottima cena che ha preparato con le sue mani, stando ai fornelli per ore ed ore. Ovviamente il marito non tocca neppure un mestolo, non sia mai, sacrilegio!

E se il figlio adolescente vuole invitare una decina di amici a casa, a qualsiasi ora del giorno e della notte, la mamma è pronta a preparare per tutti loro un succulento spuntino. Ovviamente il figlio adolescente non sa neppure accendere il fornello. Poverino, perché dovrebbe imparare? Tanto c’è la mamma che fa tutto!

Ovviamente la mamma non ha alcun altro interesse che non sia quello di accudire marito e figli come una schiava. Non legge libri, non guarda la televisione, non esce con le amiche, non è mai stanca.

E quando viene l’ora di andare a dormire, ovviamente la donna dev’essere pronta a indossare un sexy completino intimo, a togliersi i panni della “santa” per diventare una “puttana” che deve soddisfare i bisogni del marito. Ma solo per poche ore, eh, anzi per pochi minuti, insomma finché il marito non ha raggiunto il piacere (certo, perché il rapporto sessuale finisce quando lui ha avuto l’orgasmo, le donne mica devono godere, eh, solo le donnacce provano piacere!). Poi si torna ad essere delle sante.

E, il mattino successivo, tutto ricomincia da capo.

Certo, poco importa se la donna è casalinga perché non è riuscita a trovare un lavoro e ha messo da parte le sue ambizioni, poco importa se il marito picchia lei o i figli, poco importa se i figli sono nati per caso, poco importa se si sono sposati in chiesa perché così voleva la zia Giuseppina… Poco importa se la famiglia del Mulino Bianco, in realtà, non esiste.

L’importante è che una coppia sia formata da un uomo e una donna, sposati, con tanti bambini, dove lei è felice di assecondare i bisogni di tutti i membri della famiglia, dimenticando i propri.

Mi sembra di essere tornata agli anni Cinquanta, quando una donna che a trent’anni non era sposata veniva considerata una “zitella”, quando il padre, il capofamiglia, era l’unico in casa che lavorava e dettava legge, quando il divorzio non esisteva neppure, quando fare figli non era una scelta, ma un obbligo imposto dalla società…!

Siamo nel 2013. E pare che nulla sia cambiato.

Ci crediamo tanto liberi, ma siamo ancora ancorati, imprigionati, in una mentalità ipocrita e falsa.

Mia madre ha sempre considerato la nostra come la famiglia “classica”, “tradizionale”. E, agli occhi degli altri, era proprio così. Mia madre si è sempre vantata di non essere divorziata e di essere riuscita a stare al fianco di mio padre per tanti anni. Si sono sposati in chiesa. Hanno avuto una figlia – la sottoscritta – in maniera naturale. Mia madre non ha mai lavorato con la scusa di dovermi accudire…

Se potessi parlare a tu per tu con il caro dott. Barilla , gli vorrei dire due paroline.

Gli vorrei dire che avrei preferito di gran lunga essere cresciuta con amore da una coppia gay che si vuole bene e si rispetta, piuttosto che con due persone che non sono mai state in grado di comprendermi e amarmi e che hanno sempre litigato e si sono picchiate in mia presenza. Avrei preferito avere una mamma lavoratrice in grado di insegnarmi il valore del duro lavoro, piuttosto che una finta-casalinga che non lavorava solo per pigrizia e lasciava la casa sporca come un porcile… Avrei preferito avere due genitori che non si sono mai sposati, piuttosto di due che sono sposati da tanti anni e non sono neppure venuti al matrimonio della loro unica figlia…

La mia non sarà mai la sacra famiglia tradizionale. Io e Marito ci siamo sposati in comune con solo trenta invitati, avremo un figlio che non sarà nato dal mio grembo, io continuerò a lavorare, odio stirare, non so cucire, è Marito che fa da mangiare… Eppure saremo una famiglia molto più felice di tante coppie “tradizionali” che si vedono in giro.

Quelle che hanno avuto dei figli perché lo sentivano come un obbligo verso la società, e ogni istante si pentono di averli messi al mondo, rimpiangendo i bei tempi in cui potevano divertirsi… O che magari si tradiscono a vicenda, ma non osano lasciare l’altro/a per paura delle chiacchiere dei vicini…

Ma per favore!

Famiglie con figli o senza, famiglie con figli adottivi, biologici, nati in provetta, famiglie allargate, famiglie di gay, famiglie in cui lui lavora e lei sta a casa, in cui lei lavora e lui sta a casa, ma chi se ne frega? Direi che c’è posto per tutti in questo mondo. Per le sacre famiglie come per quelle dannate. Quello che importa è l’amore e il rispetto.

Mi preoccupano di più le sacre famiglie in cui i bambini vengono picchiati o abusati piuttosto che una coppia di gay che non pretende alcun diritto se non quello di amarsi in santa pace!

Basta giudicarsi a vicenda. Basta imporre la propria visione della vita agli altri.

E basta ritenere la donna la “regina del focolare!” Se una donna vuole esserlo, bene, che lo sia pure, ma le donne che vogliono lavorare, che non sanno cucinare, che non vogliono figli, non sono da meno! Così come un uomo che cucina o spolvera o pulisce o accudisce i figli non perde valore!

Vi consiglio questi due interessanti articoli sul tema

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Adozione e paure

Prima di affrontare l’argomento di questo post, voglio rispondere a due commenti.

Il primo è quello di Joanne, la quale mi fa notare che:

Spesso parli delle donne che decidono di dare in adozione un figlio come incompetenti, criminali, malate, tossicodipendenti…non è sempre così. Mia cugina è rimasta incinta a 15 anni, e ha deciso di dare il bambino in adozione. Durante la gravidanza è stata seguita da un ginecologo, ha fatto tutti gli esami necessari, ha preso l’acido folico e non ha bevuto nemmeno il caffè. E’ stata una madre, in quei nove mesi, pur sapendo che poi non lo sarebbe più stata. Quando il bambino è nato continuava a ripetere “non fatemelo tenere, anche se lo chiedo non permettetemi di prenderlo in braccio”, è stato terribile, e c’è voluta molta forza per fare quello che lei riteneva assolutamente la scelta migliore. Per questo quando sento generalizzare sulle madri biologiche dei bambini in adozione mi ribolle il sangue.

Oh beh, sapessi quante volte ribolle a me il sangue…

Prima di tutto mi sembra di non aver mai generalizzato, e di aver specificato che in molti (non TUTTI) i casi i bambini dati in adozione provengono da famiglie disagiate, sono stati abusati, maltrattati, hanno patito la fame o il freddo, ecc.
Questo mi è stato detto dall’assistente sociale, dati alla mano.
Sicuramente l’assistente sociale ne sa di più di una persona che ha conosciuto un SOLO caso.

Anch’io sono figlia di una persona schizofrenica eppure sono venuta su bene (ed è sorprendente, da quello che mi dice la mia psicologa), ma questo non toglie che nella maggior parte dei casi i figli di persone con malattie mentali presentano gravi problemi da adulti.

In secondo luogo, ammiro le persone come la cugina di Joanne, che sono riuscite a prendere la decisione più giusta per il bene del bambino, nonostante in precedenza abbia preso di certo scelte altamente sbagliate – a meno che non sia stata vittima di violenza, avere un rapporto sessuale, non protetto tra l’altro, a QUINDICI anni, quando si è poco più che bambine, non è proprio una decisione matura.
Sicuramente è stata supportata dalla famiglia nella decisione di portare avanti la gravidanza e dare in adozione il bambino, ma a quell’età non è comunque facile. Ha tutta la mia stima. E spero che il bambino abbia ora una vita serena, così come sua madre biologica.

Generalizzare non è nel mio stile, ma le statistiche sono vere e dicono quello che ho riportato io.
Poi è ovvio che ci sono le eccezioni. Ma sono, appunto, eccezioni. Punto.

Altro commento, di patalice:

come si fa?
come si fa a decidere di amare una persona che con te non c’entra nulla?
come si fa a decidere di lottare contro una burocrazia ridicola e lungaggini tediose?

(Questa commentatrice vince sia il titolo di “Miss Sensibilità” che quello di “Miss simpatia”…)

Amare una persona che con me non c’entra nulla…?

Mio figlio (perché questo sarà, anche se non nascerà dal mio ventre) c’entra tutto con me.
C’entra con la mia sofferenza, con il mio desiderio di diventare madre, con la mia vita, il mio cuore, che lui riempirà.
Lui mi permetterà di realizzare il mio sogno. Crescere ed amare una creatura che ha bisogno di qualcuno che lo prenda per mano e gli insegni la vita.

Io c’entro con la sua sofferenza.
Perché lui soffrirà, oh sì, e tanto, quando, a mano a mano che diventerà grande, scoprirà la sua storia, il suo passato.
E io allevierò il suo dolore.
Ci cureremo a vicenda.
Siamo entrambe persone che hanno bisogno di essere guarite.

Non c’entra nulla con me…?

Noi giocheremo insieme, piangeremo insieme, io lo cullerò di notte quando piangerà, io gli darò il latte, io gli racconterò le favole, io lo accompagnerò a scuola, io gli cucinerò i suoi piatti preferiti, io lo sgriderò, io gli insegnerò cosa è giusto e cosa è sbagliato…!
Non chi gli ha dato la vita, fisicamente parlando!

Lui o lei si arrabbierà con ME quando gli impedirò di vestirsi con abiti di dubbio gusto (tipo pantaloni da rapper che fanno vedere le mutande, minigonne inguinali, o qualsiasi cosa andrà di moda tra 15 – 20 anni…), mi dirà brutte parole, falsificherà la MIA firma sulle giustificazioni, mi dirà delle bugie per uscire con i suoi amici anziché studiare…
Io lo metterò in punizione, io gli spiegherò perché l’ho fatto, e lui/lei mi abbraccerà e mi chiederà scusa…
Andremo al cinema, in vacanza, a portare a spasso i cani, ovunque lui/lei voglia andare, INSIEME… Vivremo la vita INSIEME…
Il nostro futuro sarà lo stesso. Le nostre vite si intrecceranno, per sempre. Io, Marito e il nostro bambino.

Come si può dire che non c’entra nulla con me…?
Solo perché non avrà i miei occhi, il mio colore di capelli, la mia carnagione, il mio naso, o i tratti di Marito?
Conta tanto l’aspetto fisico?

E allora, a questo punto, cosa c’entra mio marito con me?
Abbiamo avuto due passati diverse, due vite diverse, finché le nostre strade non si sono incrociate e non abbiamo deciso di unirle per sempre.

Spesso un figlio “di pancia” non è una scelta. E’ un errore (ops), una cosa che ti capita senza volerlo, un incidente di percorso…  Non è stato cercato, desiderato…

Un figlio adottivo è una scelta. Viene cercato, desiderato, con tutto il cuore, da persone che veramente lo vogliono. Che lo vogliono amare, guarire, che gli vogliono donare un domani. Che vogliono coronare il proprio amore. E a cui della genetica non importa un fico secco, perché considerano l’AMORE più importante.

A fare sesso e concepire un bambino sono buoni tutti. A fare la madre e il padre, solo chi veramente lo desidera ne è in grado.

E la burocrazia.. La burocrazia è lunga, ma non ridicola.
Pensavo anch’io che la fosse, ma non è così. Solo chi ci è passato può capirlo.
Il corso, i colloquio con i servizi sociali, tutto è stato utile.
E’ stato utile per il nostro bambino, perché così avrà due genitori preparati a crescerlo, è stato utile per noi, perché siamo maturati come persone.

I tempi del tribunale sono lunghi semplicemente perché in Italia ci sono pochi bambini adottabili rispetto alle coppie che si propongono.

E questo non possiamo cambiarlo, ma solo accettarlo.

Mi sembra di sprecare energie scrivendo queste parole, perché tanto so che, chi non vuol capire, chi non ha interesse a capire, non capirà mai.
E va bene così.
L’adozione non è per tutti.

E l’amore, in fondo, non si può spiegare.
C’è chi ha un cuore grande, chi un cuore piccolo, chi proprio non ce l’ha.

Ed ora passiamo a quello di cui volevo veramente parlare.

Come promesso, in questo post affronteremo un argomento molto importante per tutte le coppie che stanno pensando di intraprendere il cammino dell’adozione.
Le paure.

Quali sono le paure che accomunano tutti gli aspiranti genitori adottivi?
Per esperienza personale, e dopo essermi confrontata con altre coppie, sono giunta alla conclusione che i timori più frequenti sono:

– Che i servizi sociali non giudichino la coppia idonea
– Che il bambino sia malato
– Che un giorno decida di trovare le sue origini
– Che non riconosca mai i propri genitori adottivi come la sua mamma e il suo papà
– Il giudizio degli altri

Forse non l’avrete notato subito, ma c’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo.
Tutte queste paure sono riferite alla coppia, e non al bambino bisognoso di una famiglia.
E questo è un modo errato di pensare. Anch’io ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma alla fine ce l’ho fatta.

Abbiamo paura che i servizi sociali non scrivano una relazione positiva perché non vogliamo rischiare che ci venga impedito di realizzare il nostro sogno più grande, non vogliamo che il bambino sia malato perché dopo aver sofferto tanto per “ottenerlo”, ecchecavolo, vogliamo che almeno sia sano come un pesce, speriamo che non desideri mai rintracciare la sua famiglia biologica perché lui è nostro, e soltanto nostro, e temiamo il giudizio degli altri perché vorremmo che il nostro figlio di cuore sembrasse anche nostro figlio di pancia, e non vogliamo dover rispondere ad insulse domande.

Non mentiamo. Il desiderio di adottare nasce, nella maggior parte dei casi, dall’egoismo di una coppia, dal desiderio di avere un figlio anche quando Madre Natura ci è avversa. Non è che ci sottoponiamo ad analisi psicologiche, affrontiamo corsi, burocrazia, tribunali, solo per altruismo o per bontà…
Ma questo è probabilmente l’egoismo più bello che ci sia.

Anch’io ho avuto (e ho) tutte queste paure, certo. E pure Marito.
Ma ho capito che stiamo guardando la situazione dal punto di vista sbagliato.
La parte debole NON siamo noi.

Tutta la sofferenza che abbiamo patito a causa dello scherzetto di Madre Natura non è nulla in confronto al dolore di un bambino che è stato abbandonato o, peggio ancora, maltrattato o abusato.
La parte debole è LUI. Non noi.

Nella maggior parte dei casi, se i servizi sociali non giudicano la coppia idonea, significa che è davvero così. Significa che la coppia in questione non è abbastanza preparata, o matura, per affrontare questo percorso. Ed in questo caso è meglio che gli aspiranti genitori riflettano prima di riprendere il cammino.
Alla coppia questo può sembrare ingiusto, verso di loro, ma è la cosa più giusta da fare per il loro futuro bambino.
(Ovviamente escludo i casi in cui gli assistenti sociali sono degli incapaci, o prendono in antipatia la coppia, ecc ecc… Fortunatamente, da quello che ho letto mi pare che non accada spesso).

Eventuali malattie del bambino. Di questo ho già parlato. Alla coppia viene data ampia libertà di scelta riguardo alle malattie, ma è ovvio che non bisogna essere troppo rigidi.
Io e Marito non abbiamo dato la disponibilità per le malattie gravi perché non ci sentiamo in grado di affrontarle, ma non abbiamo problemi riguardo malattie “minori”.
Un bambino dato in adozione non può essere un bambino completamente sano, né da un punto di vista fisico, né mentale. Non è possibile.
Spesso i bambini vengono abbandonati proprio perché hanno dei “difetti” (da quello che ci ha detto l’assistente sociale, questo accade soprattutto tra i rom). E come può non avere problemi un bambino che magari è stato picchiato, o abusato sessualmente, o anche soltanto abbandonato in ospedale dalla propria madre? Voi come stareste, al suo posto?
Magari il bambino sarà tranquillissimo, riuscirà ad elaborare tutto quanto grazie al vostro amore. Ma questa è un’eventualità remota.
Molto più probabilmente da bambino avrà atteggiamenti aggressivi verso i genitori e verso i suoi coetanei, e da adolescente manifesterà il suo disagio in un qualche modo, che sia la solitudine o atteggiamenti eccessivi (droga, alcool, gioco d’azzardo…).
Un genitore adottivo deve essere pronto a tutto questo. E deve mettersi nei panni di suo figlio. Empatia è la parola d’ordine.
Ovviamente non si può essere pronti a tutto. Le situazioni vanno affrontate una volta che si presentano, anche perché non si può sapere in anticipo come si comporterà da grande un bambino adottato!

Ma bisogna sapere che, prima o poi, in un modo o nell’altro, manifesterà un disagio (come tutti gli adolescenti, d’altronde).

La ricerca delle origini. Un sogno per il bambino adottato, un incubo per i suoi genitori “di cuore”.

In tutte le famiglie occorre parlare, ma quando è presente un bambino adottato bisogna parlare ancora di più.
Occorre spronare fin da piccolo il bambino a parlare di sé, aiutarlo ad elaborare i ricordi, a capire cosa gli è successo, ovviamente con parole adatte per la sua età.
Parlare, parlare, parlare. E spingerlo a esprimere le sue emozioni. Solo così lo si può aiutare a superare il trauma per quello che gli è successo.

Mi è rimasta impressa una conversazione che ho avuto con un signore presente al corso per l’adozione.
Questo signore ha un fratello che ha adottato un bambino da un Paese dell’Est Europa. Il bambino rifiuta totalmente le sue origini, non vuole neppure sentir nominare il suo Paese, e i suoi genitori adottivi sono contenti così.
Il signore in questione mi ha confidato che spera che anche il suo futuro bambino si comporti in questo modo.
Ecco, questo è un atteggiamento COMPLETAMENTE SBAGLIATO.
Se un bambino adottato esprime tanto astio verso la sua terra natia, significa che c’è un problema. E grosso, anche.
Una rabbia repressa che prima o poi esprimerà, magari in un modo malsano.

Noi stiamo puntando sull’adozione nazionale, per ora, ma questo non vuol dire che nostro figlio sarà italiano. Potremmo benissimo essere abbinati ad un bambino straniero abbandonato qui in Italia.
Se dovesse essere di un’etnia diversa dalla nostra (rom, africano, ecc.), noi cercheremo in tutti i modi di mantenere vivo il legame con la sua terra, imparando le usanze, anche un po’ di lingua, le ricette… E questo sarebbe un grande arricchimento anche per noi!

Un giorno nostro figlio potrebbe decidere di fare delle ricerche per ritrovare i suoi genitori naturali. In Italia la legge impone che il figlio adottivo abbia compiuto 25 anni prima di poter accedere agli atti che lo riguardano presso il tribunale.
Mi auguro che, quando avrà 25 anni, mio figlio sarà maturo e in grado di fare scelte consapevoli.
Ovviamente saprà già tutto, da me e Marito, riguardo al suo passato, o almeno quello che saremo in grado di dirgli.

Questa eventualità non mi fa paura.
Io sono certa che sarò una buona madre, e che lui, o lei, mi amerà.
E capisco anche il desiderio di cercare le proprie origini. Mi auguro che, quando deciderà di partire verso il suo Paese, o deciderà di andare alla ricerca di sua madre o suo padre biologici, che sia qui in Italia o altrove, lui mi chieda di accompagnarlo.
Sarebbe il regalo più bello che potrebbe farmi. La sua FIDUCIA.

Se io venissi abbandonata, o tolta dalla mia famiglia, penso che farei lo stesso. Ad un certo punto sentirei il bisogno di rintracciare le mie origini. Ma questo non vuol dire che scorderei chi mi ha dato LA VITA, la gioia, il futuro, l’amore.
E se poi volesse mantenere i contatti con sua madre o suo padre naturali… Beh, il cuore non ha confini. In un cuore c’è posto per tutti.
Ma so anche che è difficile che un bambino adottato possa un giorno avere quattro genitori… Perché, purtroppo, ripeto, SPESSO i motivi per cui questi bambini vengono abbandonati o tolti alle proprie famiglie sono veramente ORRIBILI.
Dubito altamente che un bambino che è stato abusato desideri ritrovare la madre naturale, o che riesca ad instaurare con lei un rapporto sano. E dubito anche che una “madre” del genere possa essere interessata a recuperare il rapporto con il frutto del suo grembo (frutto indesiderato e odiato, in molti casi).
L’eventualità, comunque, esiste. E non mi fa paura.

E non ho paura neanche della possibilità che mio figlio non mi chiami mai “mamma”, o che non chiami mio marito “papà”.
Parlando con altri genitori adottivi, ho scoperto che, contrariamente a quanto pensavo, i bambini adottati si abituano velocemente al nuovo ambiente, alla nuova famiglia. E impiegano poche settimane, a volte pochi giorni, per cominciare a chiamare lei “mamma” e lui “papà”.
Io amerò mio figlio con tutta me stessa. Ma se non riuscirà a chiamarmi “mamma” e vorrà chiamarmi per nome, va bene lo stesso. Lo capirò, lo accetterò.
Ma, sinceramente, dubito che questo possa accadere. Sia perché a noi verrà dato un bambino molto piccolo (entro i 3 anni) e sappiamo tutti che i bambini, più piccoli sono, più si abituano velocemente ai cambiamenti… Sia perché, con tutto l’amore che gli darò, gli verrà naturale chiamarmi “mamma”.
Non subito, forse. Ma, quando lo farà per la prima volta… Quello sarà il momento più bello della mia vita.

Il giudizio degli altri.

Io ho un problema. Che è anche una virtù, ma più spesso un problema.
Sono estremamente sensibile.
Cerco sempre di atteggiarmi da cinica, di fingere che l’opinione altrui non mi interessi, ma la verità è che quando qualcuno, che sia un conoscente o un amico poco importa, dice qualcosa di brutto nei miei confronti, io non riesco a rimanere indifferente. Ci sto male.

Quando una coppia adotta un bambino, le reazioni della gente che incontriamo quotidianamente può essere di due tipi: stupore positivo, o stupore negativo.
L’adozione non viene ancora considerata un fatto normale.
Le persone che sanno che vostro figlio è stato adottato lo guarderanno e vi guarderanno sempre in maniera diversa, un misto tra elogio e compassione.
Mentre tutto quello che noi vorremmo è essere considerati “normali”.
Normali non li saremo mai. Fateci l’abitudine.

Quando ho confidato al mio capo nucleo che ho intenzione di adottare un bambino, lui ha sgranato gli occhi e mi ha detto: “Tu e tuo marito avete proprio un grande cuore!”
No, non abbiamo un grande cuore.
Abbiamo solo un grande desiderio di avere un famiglia.
Se potessimo avere figli, non adotteremmo. O forse sì, ma dopo aver avuto un figlio naturale.
Non siamo dei santi, io non sono Madre Teresa di Calcutta e Marito non è Padre Pio.
Siamo solo due sfigati che cercano la strada per la felicità.

Ma non ho detto niente di tutto questo, e mi sono limitata a sorridere.

Non ho un grande cuore. Ho tanta voglia di essere mamma. E tanta sofferenza dentro di me.
Ma, chissà, forse questo vuol proprio dire avere un grande cuore. Altrimenti, come potrei contenere dentro di me tutto questo?

Anche se è stato superficiale, il mio capo ha detto una cosa bella, politically correct, per lo meno.

Ma non tutti sono come lui.

Purtroppo sono circondata da molte persone immature, ignoranti e talvolta anche un po’ maligne.

C’è chi mi ha detto, ridendo, che, se ci dessero in adozione un bambino grande, potrebbe diventare il mio amante, oltre che mio figlio…!!

Chi mi ha ricordato, con una malignità incredibile, che i bambini adottati vanno sempre alla ricerca dei genitori “veri”, prima o poi…

Che poi, oltre alla cattiveria, è anche l’ignoranza a sconvolgermi.

Ma queste persone sanno che nella maggior parte dei casi i bambini adottati sono stati maltrattati, abusati sessualmente, o figli di genitori psicopatici?
Voi vorreste rintracciare una madre o un padre che vi hanno violentato da neonati? Sì, questo orrori succedono, e spesso anche. Quando l’assistente sociale me l’ha detto sono rimasta a bocca aperta.
I casi come quello della cugina di Joanne sono rari. Esistono, ma sono rari, almeno qui in Italia (oh, devo continuare a specificarlo, non vorrei essere additata di nuovo come quella che fa di tutta l’erba un fascio…).

Quello che avrei voluto rispondere, in realtà, ma non ne ho trovato la forza perché mi mancava il fiato, è: “Certo, può essere che un figlio adottivo senta prima o poi il bisogno di ritrovare le sue origini. Per questo l’adozione non è per tutti. Per questo solo una persona forte come me può affrontarla.”

E poi ci sono gli amici e i parenti. Che non sempre parlano per il tuo bene. Che a volte aprono la bocca a sproposito, senza mettersi nei tuoi panni, ma pensando solo a se stessi. Empatia è una parola sconosciuta alla maggior parte delle persone, anche a quelle a cui vogliamo bene. Ma con loro è difficile arrabbiarsi, e spesso ci tocca mandar giù bocconi molto amari.

Quando ho iniziato il corso informativo per l’adozione ne ho parlato a lungo con due miei colleghi-amici di cui mi fido, entrambi sui cinquant’anni. Sono persone mature che mi vogliono bene, mi trattano un po’ come una figlia, ma, sia a causa delle loro vicissitudini personali che per la loro età, faticano a capire le mie scelte.
Ai loro tempi nessuno si sottoponeva alla PMA, non era ancora una pratica diffusa. Faticano a mettersi nei miei panni e capire il mio desiderio di maternità, che per loro sembra un’ossessione.
Quando ho detto loro che al corso erano presenti diverse coppie della loro età, o poco più giovani, lei ha strabuzzato gli occhi e, rivolta all’altro collega, ha esclamato:

“Gente della nostra età?! Oddio, ti immagini dover andare ad un corso, e fare tutte quelle cose lì? Ma chi ne ha la voglia? Quelli sono pazzi!”

No, non sono pazzi.
Loro desiderano un figlio, e tu no.
Questa è la differenza.
E questa “piccola” differenza cambia tutto. Questa piccola differenza dona loro una forza che voi non potrete mai avere.
Ho provato a dirglielo, ma non credo abbiano capito.

Qualche mese fa ho parlato per la prima volta di adozione con una mia amica, la solita amica di cui a volte parlo, poco più che trentenne, mamma di un bimbo di un anno concepito con il primo rapporto non protetto con suo marito.
(Alla faccia degli spermatozoi).

Nel suo caso, la reazione è stata assolutamente normale. Non indifferente, ma normale, come se la avessi confidato che avevo intenzione di comprare un vestito nuovo.
“Non vuoi più fare la PMA? Ora vi concentrate solo sull’adozione? Ma sì, fate bene!”
Non è che io sia incontentabile, eh.
Ok, voglio essere trattata come una persona “normale”, ma… Cazzo, non ti ho detto “ora vado in centro a fare shopping”. Ti ho detto che ho rinunciato per sempre all’idea di concepire un figlio naturale e che intendo farmi psicanalizzare, studiare, da degli estranei, andare in giro per tribunali, attendere, se va bene, qualche anno per avere un figlio che tu hai avuto con UN RAPPORTO SESSUALE, UNO!

Non voglio essere vista come una Madonna né come una sfigata, ma almeno fingere interesse, fare qualche domanda, insomma…

Ma il massimo è stato quando ho parlato con mia nonna paterna dell’adozione.
Lei è l’unico membro della mia famiglia con cui io abbia un vero e proprio rapporto. Le racconto cosa succede nella mia vita, le mie paure, le mie speranze.
Quando le ho parlato della PMA, all’inizio ci è rimasta male, sia perché non si aspettava che io e Marito avessimo problemi simili, sia perché certe pratiche mediche per lei sono una novità. Ma si è abituata presto all’idea, e in poche settimane ha iniziato lei stessa a consigliarmi degli ospedali a cui rivolgermi!

La sua reazione è stata più o meno la stessa con la notizia dell’adozione.
Quando le ho detto di aver deciso di smetterla con la PMA e che io e Marito avevamo già iniziato le pratiche per adottare un bambino, lei ha esclamato:

“Eh? Ma perché? Subito? Non potete aspettare ancora un po’? Magari arriva, un bambino! Ma perché non provi di nuovo con la fecondazione? Mi hanno appena consigliato un nuovo ospedale…”

La sua reazione mi ha fatto male. A lei non importava nulla di me. Non mi ha chiesto perché avessi preso quella decisione. Voleva solo che facessi come voleva lei.
Ho capito che in questi casi bisogna mostrarsi duri e determinati, per far capire alle persone che ci circondano che sì, siamo sicuri della nostra scelta e no, non accettiamo consigli, perché nessuno, a meno che non si tratti di qualcuno che ha vissuto lo stesso dolore, può dirci cosa fare.

“No, nonna. Sono quasi quattro anni che proviamo ad avere un bambino. Non possiamo averlo, non riusciamo, anche se aspettiamo mille anni. E la fecondazione non la voglio più fare. In fondo è il mio corpo che ci va di mezzo, non il tuo. Sono io a scegliere. E non vogliamo aspettare per l’adozione. NOI SIAMO FELICI COSI’. Il nome di quell’ospedale non mi interessa.”

NOI SIAMO FELICI COSI’.
Ma a qualcuno importa?
Alla gente importa solo puntare il dito, dare consigli non richiesti, senza ascoltare le parole e le emozioni di chi sta dall’altra parte, di chi sta realmente vivendo quella sofferenza.

Mi sono resa conto che la gente è molto egoista. E, al contrario di quello che porta alla scelta di adottare, questo è un egoismo negativo.
L’amica è talmente concentrata sul suo bambino da non vedere nient’altro, gli amici che non vogliono figli non si sforzano di capire, la nonna ha paura di ritrovarsi un pronipote che non le assomiglia, i colleghi cercano il gossip…

Non c’è nessuno, e dico nessuno, che mi abbia chiesto: “Ma tu, sei felice? Come lo immagini il tuo futuro? Sei dispiaciuta di aver rinunciato ad un bambino di pancia? Sei sicura della tua scelta? Se sei sicura, io sono felice per te e ti sosterrò. C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?”

Questo vorrei sentire.

Alle battutine, all’ignoranza, alla superficialità, mi dovrò abituare.
Ma, soprattutto, dovrò imparare a rispondere per le rime, senza arrabbiarmi, ma con eleganza ed ironia.

Perché siamo solo all’inizio.

E devo imparare anche perché un giorno dovrò insegnare a mio figlio come replicare alle stesse domande.

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Il mio posto nel mondo

Sono pronta. Domani è il giorno del pick up.

Almeno, la ginecologa dice che sono pronta. Non vedevo l’ora che questo giorno arrivasse, e ora ho paura. Ma non posso tirarmi indietro. Non voglio, soprattutto.

Io faccio sempre così. Mi mostro calma e serena, quasi fredda, apatica. Scherzo, rido, interpreto la parte di quella forte, della guerriera che può affrontare tutto, che non ha paura di niente. Solo quando poi mi trovo realmente davanti alla prova che devo superare comincio a capire davvero cosa sta accadendo.

Ma non è di questo che voglio parlare, ora. Domani avrò tutto il tempo per sfogarmi e raccontarvi di come mi sono fatta nuovamente compatire urlando davanti ai medici…

Ora vorrei condividere con voi un post che ho scritto qualche giorno fa e che finora non avevo trovato il tempo di pubblicare.

 

La domanda che mi sento porre più spesso dalle poche persone a cui ho parlato dei nostri tentativi di PMA è: “Come mai hai tanta fretta di avere un figlio?”
Non mi chiedono perché io desideri un bambino, che sarebbe una domanda più che lecita. No. Mi domandano perché lo voglia ora. E questo mi fa girare le ovaie a mille.

Dall’atteggiamento di queste persone ho capito una cosa importante. La maggior parte della gente ritiene che avere un figlio sia un fatto naturale, istintivo, non un desiderio d’amore, ma un compito che si deve alla società, a cui assolvere dopo aver, possibilmente, goduto appieno della propria vita. Ovvero, dopo essersi divertiti alla grande, aver viaggiato tanto, fatto esperienze nuove e magari aver intrapreso una carriera lavorativa. Infatti mi sono anche sentita chiedere, da un’amica che sa che a novembre i miei genitori andranno alle Mauritius, perché non abbia deciso di rimandare la PMA e approfittarne per andare via con loro… Come se una vacanza fosse più importante di un figlio! Come se avere un bambino non potesse essere un desiderio, ma soltanto un obbligo a cui ci tocca adempiere perché costretti dall’istinto o dalla società. Come se un figlio non fosse la vita, ma una scocciatura, come se una vacanza, o la carriera, o il divertimento fossero i veri piaceri dell’esistenza umana.

Magari per qualcuno è così. Se sta bene a loro, sta bene anche a me. Ma per me è diverso.

Perché voglio tanto un figlio?

Nella mia vita mi sono sempre sentita fuori posto. Prima di tutto nella mia squilibrata famiglia. Ed è a causa dell’anaffettività dei miei genitori che mi sono sempre sentita molto sola, diffidente, spesso incapace di stringere legami. Ho dovuto leggere numerose ricerche mediche e subire anni di psicanalisi prima di capirlo… Ma ora, finalmente, ce l’ho fatta. Ho capito che tutti i miei fallimenti sono stati in gran parte causati da quello che ho passato nella prima, delicatissima fase della vita. La psicologa dice che, con un vissuto come il mio, avrei potuto facilmente imboccare la strada sbagliata, diventare a mia volta una persona squilibrata, addirittura finire nel tunnel della droga o diventare aggressiva. La rabbia c’è, non lo nego, ma il desiderio di trasformala in amore, anziché essere risucchiata dall’ira, è più grande.

Non mi sento mai al posto giusto. Mi sento sempre diversa. A volte migliore, ma spesso peggiore degli altri. Ho perennemente paura di sbagliare, di essere fraintesa, di non essere amata. Faccio di tutto per essere accettata dagli altri, per avere una briciola di affetto. Ma questo non mi aiuta ad ottenere amore, ma mi mostra come una persona insicura e anche un po’ pirla.

Sono sempre stata esclusa, incompresa, non amata. Prima di tutto dai miei genitori, che mi hanno sempre detto che sono un’ingrata e un fallimento, dalle coetanee che da ragazzina mi escludevano perché dicevano che ero strana, e dalle attuali amicizie che si ricordano di me soltanto per Natale e il giorno del mio compleanno.

Le difficoltà sul lavoro, i litigi con i miei genitori, il matrimonio, la PMA, sono tutte grandi prove che ho dovuto affrontare da sola. Certo, ho Marito al mio fianco, ma a volte sarebbe bello avere una mamma da cui farsi coccolare o un’amica pronta a correre da te quando stai male.

Sarebbe bello. Ma, a dire il vero, forse in fondo al cuore non è che mi importi più di tanto.

A volte penso che l’unico modo per sentirmi finalmente al mio posto sia diventare madre.

Questa affermazione, detta da una femminista come me, può sembrare alquanto paradossale. Ma è proprio così che mi sento.

Non è che la mia vita sia totalmente vuota, eh. Ho un buon lavoro, ho la passione per la scrittura, ho il volontariato. E anche l’amore non mi manca. So che Marito mi ama e sono certa che staremo insieme per sempre, e ho i miei cani che mi donano ogni giorno un affetto puro e disinteressato. E gli amici… Le rare volte in cui sono, sanno darmi affetto anche loro. Non è un affetto sui cui io possa contare, ma è meglio di niente.

Non ho nessuna intenzione di avere un figlio per riversare su di lui tutta la mia frustrazione, i miei sogni non realizzati, per avere una rivincita attraverso di lui, o per assicurarmi un “bastone” per la vecchiaia… No, ve lo assicuro. Non importa se mio figlio sarà un genio oppure un asino, o semplicemente mediocre, non importa se sarà bello o brutto, non importa neppure se mi vorrà bene o se mi vedrà come una rompiballe. E non mi interessa neanche se a vent’anni dovesse decidere di lasciare l’Italia per trasferirsi dall’altra parte del mondo.

Dal momento in cui darò alla luce mio figlio, io non mi sentirò più sola. Non sarò più sola. Troverò finalmente quel legame che ho sempre desiderato. Un legame indissolubile, qualsiasi cosa accada. Io ho bisogno di quel legame. Ho bisogno di sapere che in questo mondo c’è qualcuno legato a me, per sempre.
E solo un figlio ti può dare quella certezza. Non mi sentirò più inutile, un fallimento. Avrò una piccola creatura da crescere. Una creatura che avrà bisogno di me. Una creatura da cui non dovrò elemosinare amore, ma che mi amerà a prescindere, perché io gli darò la vita.

Forse penserete che io sia un’egoista, che abbia troppe aspettative verso la maternità… Ma non credo che sia così. Prendete me. Nonostante tutto quello che mia madre mi ha fatto – e vi assicuro che su questo blog ho raccontato solo le parti divertenti – io continuo a tenderle la mano, aspettando – invano – che l’afferri. Continuo a farmi del male, volontariamente, perché una madre e un figlio sono per sempre legati, qualsiasi cosa accada.

Mio figlio avrà da me tutto quello di cui un bambino ha bisogno: amore e protezione. E non importa se non riuscirà a restituirmi lo stesso affetto. Semplicemente donargli il mio amore mi farà sentire bene. Perché finalmente saprò di non stare sprecando le mie energie e il mio cuore per qualcuno che non li merita, per qualcuno che non sa cosa farsene.

Amare è tutto quello che desidero fare. Voglio fare qualcosa di buono. Amare e sapere che il mio amore non è vano.

Pubblicato in: La mia storia

Sogni infranti

Come previsto, sabato io e Marito siamo tornati al centro PMA per discutere il prossimo tentativo di ICSI. Praticamente sono stata io a dettare alla dottoressa dosi e giorni delle iniezioni, tanto sono diventata esperta! Per fortuna non ci ha fatto pagare per la consulenza (e meno male, con tutti i soldi che le dovremo dare alla fine!), e Marito mi ha detto che avremmo dovuto chiederle noi dei soldi, dato che ho fatto tutto io…  😉

Visto che le Malefiche mi sono arrivate, sgradite come sempre, il sei settembre, dovrò iniziare la terapia ormonale il ventisei, ovvero il ventunesimo giorno del ciclo. Come l’altra volta farò la soppressione con un’unica iniezione di Enantone, poi dovrò attendere la nuova visita delle Malefiche e il terzo giorno del ciclo successivo inizierò la stimolazione con il Gonal. Questa volta assumerò dosi maggiori per tentare di produrre qualche ovocita in più, dato che l’altra volta non è andata molto bene (sei follicoli di cui tre vuoti).

Ho parlato alla dottoressa della prostatite di Marito. Ero convinta che l’avrebbe considerata come una buona notizia, invece mi ha detto che, anche dopo la cura antibiotica, sarà impossibile per noi provare ad ottenere una gravidanza naturale. Magari gli spermini miglioreranno come motilità, ma come numero e morfologia assolutamente no. La notizia non mi ha gettato nel panico più di tanto. E’ vero, ci speravo, come vi ho detto nell’ultimo post, ma in fondo al cuore sapevo che era solo una remota possibilità… E quindi, le strade tornano ad essere due, proprio come pensavo fino a pochi giorni fa. Adozione o PMA. E, ripeto, non mi importa quale cammino ci porterà al traguardo. Basta arrivarci, a ‘sto benedetto traguardo!

Tutta la mia vita ormai ruota intorno a questo. Ad un figlio. La mia vita è in stand by. E io voglio che sia così. Non voglio prendermi una pausa di riflessione, come molte altre coppie fanno. Forse mi farebbe bene, ma non voglio. Non voglio prendermi del tempo per me, non voglio che io e Marito sperperiamo soldi in viaggi e ristoranti per cercare di distrarci da qualcosa che, anche impegnandomi con tutte le mie forze, anche godendomi la vita come mai prima, non potrei mai dimenticare: io voglio un figlio. Di tutto il resto non mi importa. La mia vita riprenderà quando lui sarà qui con me. E sarà una bella vita. Sarà la vita che ho sempre voluto.

“Sogni infranti” è il titolo di questo post. Ma non mi riferisco al fatto di aver capito (di nuovo) che diventare mamma normalmente (brutta parola…) è impossibile per noi.

Quello che state per leggere l’ho scritto qualche giorno fa. L’ho scritto di getto, rabbiosamente, mentre piangevo. Ho esitato prima di pubblicarlo sul blog. Un po’ mi vergognavo. Sono pensieri molto intimi. E temevo anche che qualcuno mi potesse accusare di vittimismo, di voler essere compatita… Non è così. E se alla fine ho deciso di pubblicare le righe che state per leggere è perché non voglio più avere paura. E perché voglio liberarmi, e non ho molte persone nel mondo “reale” con cui farlo. E anche per farvi capire che non dovete dare nulla, ma proprio nulla, per scontato. Soprattutto l’amore. E poi, in fondo, tra i lettori di questo blog solo un paio sanno veramente chi sia Eva. Per gli altri sono solo un’anonima blogger come tante altre. Quindi, chi se ne frega se mi giudicherete male.

Famiglia. Cosa significa questa parola per voi? Per me la famiglia è il morbido e caldo materasso che ti accoglie e ti impedisce di ferirti ogni volta che la vita cerca di farti cadere a terra. Gli amori e gli amici se ne vanno, ma la famiglia resta. La famiglia c’è sempre. La famiglia è una certezza. Questa è la famiglia che io e Marito vogliamo essere per il nostro bambino. Questa è la famiglia che ho sempre sognato, e che non ho mai avuto. Sono caduta molte volte. E raramente ho trovato qualcuno ad accogliermi tra le sue braccia per sorreggermi. Sono sempre finita con il culo per terra. Quel morbido materasso che la maggior parte delle persone che conosco da per scontato io non l’ho mai avuto. Non ho mai vissuto, non ho mai sofferto con la certezza di avere qualcuno pronto a tendermi la mano. Anzi. Tante, troppe volte sono stata io a tendere la mano, a dare un aiuto a quelle persone che mi avrebbero dovuto crescere con amore, e che invece hanno lasciato che crescessi priva di qualsiasi fiducia negli altri e in me stessa.

Mia madre non sta bene. Da tanto, troppo tempo. Ma la sua malattia non è visibile, non può essere diagnosticata tramite un’ecografia o una tac, non provoca dolori fisici, non presenta tracce sul corpo. Tutti hanno sempre fatto finta che non ci fosse alcun problema. Tutti dicono che mia madre è semplicemente un tipo “particolare”. Nessuno osa dire la verità. La malattia di mia madre ha condizionato tutta la mia vita. Le sue crisi isteriche mi hanno fatto crescere nella paura, la sua morbosa gelosia verso di me e mio padre mi hanno impedito di frequentare la famiglia, la sua incapacità di provare affetto per qualcuno all’infuori di se stessa mi ha fatto sempre sentire sola. Mio padre, succube della moglie, ha sempre piegato la testa e chiuso gli occhi davanti ai problemi di mia madre. Ha cercato di vivere la sua vita senza lasciarsi condizionare dalle stranezze della moglie. E se l’è sempre presa con me per qualsiasi cosa. Ogni cosa era, ed è, colpa mia. Non di mia madre, non della sua malattia che non riese ad ammettere. NO. Mia.

Da quando avevo tredici anni o giù di lì io e i miei genitori abbiamo smesso di mangiare a tavola insieme. Alla sera ognuno mangiava ad orari diversi. Io a volte mi preparavo qualcosa che poi mi mangiavo nella mia camera, da sola. Ho passato l’adolescenza chiusa nella mia camera. La maggior parte delle volte, in realtà, saltavo la cena. Nessuno si curava di questo. Pensavano che volessi dimagrire. Pensavano che me ne stessi sempre chiusa in camera perché ero un’adolescente tormentata. Con il digiuno, il silenzio e la solitudine io volevo farmi sentire. Ma loro non hanno mai sentito niente.

Quando sono andata a vivere da sola credevo che finalmente mi sarei liberata dell’influenza negativa dei miei genitori sulla mia vita. Mi sbagliavo. Nonostante tutto, loro sono sempre la mia mamma e il mio papà, e ho mantenuto i rapporti con loro. E anche se non viviamo più insieme in questi anni sono sempre riusciti a trascinarmi nel loro vortice di rabbia e pazzia, mentre io, anche impegnandomi con tutta me stessa, non sono stata in grado di trasformarli nei genitori che avrei voluto.

I miei genitori non sono voluti venire al mio matrimonio. Credevo che dopo un affronto del genere non sarei più riuscita a parlare con loro, e invece ho continuato a frequentarli, anche se raramente. Perché sono sempre la mia mamma e il mio papà. E non posso averne altri. Ma ora ho deciso che posso fare a meno di loro. Devo fare a meno di loro, se voglio sopravvivere.

Un paio di giorni fa sono andata a trovare mia madre. Non ci vedevamo da mesi. Ultimamente ci siamo sentite soltanto qualche volta per telefono. Ogni volta la conversazione è finita tra urla e insulti. Mia madre non sopporta il fatto che io frequenti i miei nonni paterni e mia zia, che lei odia, non ho ancora capito per quale motivo. In realtà non è gelosa di me. Non le importa niente di sua figlia. Ma detesta il fatto che altri membri della famiglia ricevano più attenzioni di lei. Forse dovrebbe chiedersi perché le cose vanno così…

In tutti i modi, come dicevo, sono andata a trovarla. Le prime due cose mi ha detto sono state “Hai visto come sono magra?” e “Lo sai che Francesca, la tua compagna di scuola materna, ha un figlio di due anni?”

Bell’inizio.

Poi mi ha parlato dei litigi con mio padre, del fatto che si è vendicato di lui perché non gliel’ha data per sei mesi.

Lei: “Ah ah! Non gliel’ho data per sei mesi!”
Io: “Non sono termini appropriati per parlare con tua figlia.”
Lei: “Eh, va beh, allora dirò che non abbiamo fatto l’amore per sei mesi… Tanto è uguale a dire che non abbiamo scopato!”
Io: “Puoi usare qualsiasi termine, ma la cosa non mi interessa. Non credo che dovresti parlare di questo con tua figlia.”

I discorsi di mia madre non seguono un filo logico. Dopo pochi istanti ha cominciato ad urlarmi per essere andata un pomeriggio sul fiume con Marito,  mio padre, mia nonna e mia zia.
“Hai fatto vedere a tuo marito tua zia in bikini, ma non gli hai fatto vedere le mie foto su facebook!”
Ho fatto vedere a mio marito mia zia in bikini?? Mia zia era sul fiume a nuotare e prendere il sole come tutte le altre persone presenti, era ovvio che fosse in costume! Cosa gliene può fregare a mio marito di guardarla?
“Le tue foto su facebook sono imbarazzanti. Sembri una pornostar. Marito le ha viste. E anche due nostri amici le hanno accidentalmente viste. Si sono vergognati per me.”
Lei ha riso. “Non è vero! Sicuramente hanno detto che sono una bella donna! Perché è così!”
“Si sono vergognati per me,” ho ripetuto. “Quelle foto sono penose.”
“E invece di certo hanno detto che sono una bella donna!”
Oooook.

A novembre i miei genitori andranno alle Mauritius. Mia madre mi ha chiesto se durante la loro assenza posso andare a casa loro a pulire e accudire i gatti, come ho fatto quest’estate. Le ho detto che tra poco dovrò essere operata, e non so se potrò farlo. Non so perché l’ho detto. I miei genitori non sanno nulla dei problemi miei e di Marito. Non sanno della fecondazione assistita. Non conoscono l’inferno che stiamo vivendo. Credono che i loro problemi siano i più gravi del mondo. I litigi da adolescenti, i profili su facebook, le ripicche infantili… Pensavo che non avrebbero mai potuto capire quello che io e Marito stiamo passando, pensavo che non sarebbero stati di alcun aiuto. Eppure in fondo al cuore ho sempre desiderato confessare loro tutto quanto. Continuavo a dirmi che forse questa volta sarebbero riusciti a capire, che davanti ad una realtà tanto cruda e dolorosa sarebbero stati, per la prima volta, il materasso caldo e morbido che non mi hai mai sostenuto…

Quando le ho detto che dovrò subire un’operazione, mia madre ha voluto sapere a tutti i costi di cosa si trattasse. Io ho esitato. La sua agitazione mi metteva ansia. Poi, urlando, mi ha chiesto se i miei nonni e mio padre sapessero già tutto. Non avrebbe potuto sopportare un simile affronto.
“Se l’hanno saputo prima di me ti ammazzo!”
Io le ho risposto di no, che nessuno sapeva niente, ma lei non mi ha creduto e ha alzato la cornetta per chiamare mio padre e chiederglielo. Io l’ho fermata, a fatica, l’ho pregata di non farlo, dicendole che si tratta di una questione molto delicata.

Ha continuato a chiedermi spiegazioni, a chiedermi che cos’ho. Ad un certo punto mi sono lasciata andare e ho detto tutto.
“Abbiamo scoperto di non poter avere figli. E quindi abbiamo fatto la fecondazione assistita,” ho detto, laconicamente, senza lasciar trasparire alcuna emozione, come faccio sempre quando racconto a qualcuno del nostro dramma. Solo chi mi conosce realmente capisce quello che si cela dietro alla mia voce ferma e ai miei occhi impassibili. E mia madre non mi conosce realmente.
“Ah. Ho letto qualcosa, ma non so bene come funziona. Cos’hai dovuto fare?”
Ha parlato con tono neutrale, anzi, quasi allegro, come se non stessimo parlando della prova più grande che ho dovuto affrontare nella vita, come se mi stesse chiedendo, che ne so, da che estetista vado a farmi fare la ceretta…
Avevo appena cominciato a spiegare in cosa consiste la PMA, quando mia madre mi ha interrotto di nuovo per chiedermi ancora se fossi sicura di non aver detto niente a mia nonna. “Devi stare attenta, non dire niente a quella donna, è una vipera, una stronza!”
Ha continuato ad insultare mia nonna per diversi minuti. Mi guardava, ma i suoi occhi vuoti non mi vedevano realmente. Il suo sguardo è sempre stato spaesato, allucinato, perso. Lei non è mai realmente presente. Vive in un altro mondo. Un mondo che solo lei capisce. Io sono in un altro universo. Un universo dove lei non vuole entrare, dove non le interessa entrare.
A quel punto sono scoppiata. “Mamma, ma mi stai ascoltando? Capisci quello che ti sto dicendo?”

Le ho fatto notare che, ogni volta che le parlo di qualcosa di importante, lei non si cura di me, non mi ascolta, non le interessa ascoltarmi, ma coglie il pretesto (o se lo inventa) per cominciare a parlare di mia nonna e a insultarla, proprio come una pazza. Proprio com’è accaduto quella volta che, mettendo da parte tutto il mio orgoglio, le ho mostrato (senza che mi fosse neppure chiesto, eh) l’album del matrimonio, dopo che né lei né mio padre erano venuti alla cerimonia. Anche in quell’occasione non ha prestato alcuna attenzione a me, sua figlia. Ricordo benissimo la foga con cui sfogliava le pagine. Non ha guardato una sola foto che ritraeva me o mio marito. Si soffermava soltanto su quelle dove compariva mia nonna, per criticarla, e insultarla, e sputare veleno. Se qualcuno le chiedesse com’era l’abito di sua figlia o il colore dei fiori in Comune, lei non saprebbe rispondere, ma ricorderebbe perfettamente cosa indossava mia nonna o il modo in cui era seduta.

“Hai ragione,” ha detto, “ma tua nonna è veramente una puttana! Ed è invidiosa di me perché sono una bella donna! Non sono belle le mie foto su facebook?”
“Sono imbarazzanti.”
“Ah, allora dillo che sei arrabbiata con me per quelle foto! Ma non è colpa mia se sono una bella donna…”

A questo punto me ne sono andata, urlando, arrabbiata con lei ma soprattutto con me stessa per aver ingenuamente creduto che per una volta mia madre fosse in grado di ascoltarmi. Mentre me ne andavo lei continuava ad inveire contro mia nonna. Non mi ha fermata, non mi ha domandato perdono.

Da quel giorno mia mamma si è fatta sentire soltanto tramite alcuni sms. Ma non mi ha chiesto scusa, non mi ha chiesto se potevamo riprendere il discorso, non mi ha chiesto come sto. Mi ha solamente scritto che è stanca di essere esclusa da tutto e di non esistere per nessuno.

Quando ho raccontato l’accaduto alla psicologa, mi ha consigliato, per il mio bene, di stare lontano da mia madre e di non arrabbiarmi così tanto, ma di considerare che è una donna malata che vive in un suo mondo immaginario. Non è in grado di comprendere la realtà, né di capire che il suo comportamento non è normale.

Mamma. Sono tua figlia. Te ne rendi conto? Non posso avere figli. E un figlio è tutto quello che desidero dalla vita. Lo sapevi, questo? No. Non lo sai. Non me l’hai mai chiesto. Non ti è mai interessato scoprirlo. Non te ne frega niente di sapere quello che ho passato. Non mi hai neppure lasciato finire di parlare. Non sai che mi sono dovuta imbottire di ormoni, non sai che ho pianto durante il pick up, non sai che gioia ho provato sentendo quei due puntini luminosi dentro di me, non sai nulla… Cazzo, non sai neppure se sono incinta o meno!
Io ho avuto un aborto, mamma. Non so neppure se chiamarlo così, visto che la gravidanza è durata poco più di due giorni. Ma io mi sono sentita tanto felice quando pensavo di poter finalmente essere una mamma, e sono stata malissimo quando quella piccola vita, quella che sarebbe diventata una vita, mi ha lasciato.
Mamma, non mi interessano le tue scopate, i tuoi amanti, le tue foto su facebook, il tuo odio per la nonna. Volevo soltanto che mi ascoltassi. Ma non sei riuscita a farlo. So che non ci riesci perché sei malata, ma avrei voluto tanto, per una volta, una volta sola, avere una mamma.
Quando mio figlio o mia figlia verranno da me, sofferenti, io sarò per loro il caldo materasso che tu non sei mai stata.
Che strano il destino, vero, mamma? Tu che un figlio non lo volevi e non eri neppure in grado di crescerlo sei rimasta incinta senza volerlo, mentre io, che sogno di essere madre da sempre, devo faticare così tanto per realizzare il mio sogno.
Ti ho dato la possibilità per essere una mamma, per una volta. Ma tu non hai voluto approfittarne. Io sarò una madre decisamente migliore di te.
E, chissà, forse è anche grazie a tutto quello che mi hai fatto passare che negli anni ho capito chi voglio e chi non voglio essere. Forse dovrei ringraziarti, perché mi hai fatto scoprire cosa significa crescere con una persona incapace d’amarti. E i miei figli non scopriranno mai cosa si prova. I miei figli non diranno mai quello che io sto per dire: “Io non ho più una madre.”

Mi piacerebbe poterle dire tutto questo. Ma lei non capirebbe. Non capisce mai. Ed ora ho capito che non posso obbligarla a capire.

L’altro giorno, non so per quale motivo (forse a causa dello scombussolamento ormonale provocato dalle Malefiche) ho raccontato ai miei colleghi qualche anneddoto sulla mia famiglia. Ho detto loro che non mangiavamo mai insieme, e che ognuno si cucinava quello che voleva all’ora che voleva e mangiava da solo.

I miei colleghi non mi hanno creduto. Hanno riso di me. Mi hanno accusata di esagerare, perché secondo loro è impossibile che esistano famiglie del genere e che dei genitori si possano comportare in questo modo.

Tralasciando l’ignoranza dei miei colleghi (ci sono anche dei genitori che abusano sessualmente dei figli – ma non li leggono i giornali?), i loro commenti mi hanno fatto capire che le persone danno tutto per scontato.

I genitori amano i figli.

No, non è così. Non sempre. A volte li vorrebbero amare, ma non sono in grado di farlo.

I miei colleghi credono anche che avere un figlio sia una cosa normale, un qualcosa che tutti possono ottenere. E neanche questo è vero.

Non bisogna dare nulla per scontato. E i miei figli riceveranno tutto l’amore che ho da dare, tutto l’amore che non ho mai ricevuto, tutto l’amore che ho sempre desiderato.

L’obiettivo della mia vita è trasformare la rabbia in amore. Finora ci sono sempre riuscita, seppur a fatica. E anche la rabbia per dover lottare tanto per diventare madre alla fine si rivelerà qualcosa di buono. Dopo aver atteso tanto, mio figlio sarà il bambino più amato del mondo. E gli insegnerò a non dare nulla per scontato.

P.S. Un applauso a chi è riuscito ad arrivare alla fine di questo luuuungo post!