Pubblicato in: Infanzia&Bambini, La mia storia

La Diana sulla Luna

Possiedo la capacità, che in tante occasioni della vita mi ha salvato dalla follia, di riuscire a chiudere a chiave in un cassetto della memoria i ricordi più dolorosi.

E poi di scordarmi volontariamente del luogo in cui ho riposto la chiave, in modo che non possa riaprire mai più quel cassetto.

E poi ci sono ricordi che, semplicemente, sono così ingombranti da non riuscire a chiuderli da nessuna parte, e forse non vuoi neppure farlo. Perché, in fondo, quel dolore ti ricorda anche la felicità che l’ha preceduto.

Oggi, 8 novembre 2020, è passato un anno esatto da quando Diana se n’è andata… Sì, era “solo” un cane agli occhi del mondo, ma, nella mia vita, rappresentava molto di più.

Anche se non vorrei, ricordo alla perfezione ogni dettaglio di quella giornata terribile.

L’immagine che mi viene subito alla mente quando ripenso a quei momenti è il modo in cui ho spazzolato il pelo della mia cagnolona, dopo che il veterinario aveva eseguito l’eutanasia. Il suo spirito non c’era più, il suo corpo immobile, eppure io mi sono messa a spazzolarla, da sola, nello studio del veterinario avvolto da silenzio.

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Mai fidarsi della vita (un mese senza Diana)

In questo periodo mi sento fagocitata dal dolore. Sì, ho detto proprio “fagocitata”.

Non amo questa parola, ha un brutto suono, non trovate? Eppure, è l’espressione che meglio esprime ciò che provo.

Fagocitare: accaparrarsi con prepotente avidità, incorporare, annettersi.

Nelle ultime settimane mi sono ritrovata a fare da confidente a persone che stanno soffrendo dolori inimmaginabili, dolori talmente potenti che, se dovessero penetrare nella mia vita, non so veramente come farei ad affrontarli.

Sono brava ad ascoltare. Mi piace ascoltare le storie degli altri e, soprattutto, mi piace pensare di poter offrire un po’ di conforto al dolore altrui. Anche se poi, quel dolore, diventa un po’ anche il mio, e mi fa stare male.

Anche io ho tanta sofferenza da cui vorrei liberare il mio animo. Spesso non lo faccio, per timore di gravare sugli altri, e poi, diciamo la verità, è difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltarti. Mi capita spesso di imbattermi persino in qualcuno che non crede alle mie storie di vita vissuta, soprattutto quando parlo della mia famiglia di origine.

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La Diana sulla Luna

La prima cosa che Robertino fa, ogni sera, quando torna dall’asilo – dopo aver chiesto un pezzo di cioccolato – è salutare le sue cagnoline. Diana e Yuma.
Ma quel venerdì sera maledetto, c’è solo Yuma ad aspettarlo. Non se ne accorge subito. È così abituato alla loro presenza, da considerarla una cosa… Scontata. E la possibilità che non possano più esserci, impossibile.

“Mamma, dov’è Iaia?”
“Siediti, tesoro. Devo dirti una cosa. Ti ricordi che Diana era molto ammalata, vero?”
“Sì. Bua al pancino.”
“Esatto. Aveva molto male al pancino. Ecco, stava così male che è dovuta andare via.”
“Per sempre?”
“Purtroppo, sì.”
Sgrana gli occhi. Non ho mai visto quello sguardo negli occhi del mio bimbo.
“E non tornerà mai più?”
“No, amore mio. Mai più. Mi dispiace tanto.”
Roberto piange. Mai lacrime mi hanno fatto più male.

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Mentre ti aspetto… Scrivo!

Non scrivo qui da quasi due anni.
Da quando è nato mio figlio, il mio Sesamino, il mio Piccolo Grande Miracolo.
E non è un caso che abbia deciso di ricominciare a scrivere proprio oggi, 15 ottobre.
La giornata dedicata alla consapevolezza sulla morte perinatale, per ricordare tutti i bambini che hanno perso la vita nel grembo della loro mamma o che sono sopravvissuti solo poche ore, o pochi giorni, dopo la nascita.

La nascita e la morte sono inevitabilmente legate tra di loro, lo sappiamo bene, anche se cerchiamo di ignorarlo, perché questo pensiero ci impedirebbe di vivere. Lo sappiamo, lo accettiamo, ma cerchiamo di non pensarci.

La parola “morte”, però, associata all’immagine di un neonato o a quella di un pancione… No, questo non è accettabile, non riusciamo ad accettarlo! E’ troppo crudele, insensato… Come può un bambino morire prima di nascere? O nascere per vivere una vita breve e leggera come un soffio? Che senso ha? Perché tutto questo dolore?
Tante persone non sanno neppure che esiste una sofferenza tanto grande, e che purtroppo non si tratta di rari casi.
Ed è una fortuna che sia stata istituita questa Giornata, non solo per rendere onore a tutti gli angioletti che vegliano da lassù sui loro genitori, non solo per permettere a tutte le mamme e i papà privati dei propri bambini di riunirsi e sentirsi meno soli, ma anche per divulgare importanti informazioni su questo lutto terrificante.

Tante coppie infertili, che magari hanno affrontato il cammino della PMA, purtroppo conoscono questo dolore. Spesso l’hanno affrontato più di una volta.

Io stessa, al mio primo tentativo di PMA, ho perso i miei due angioletti poco tempo dopo aver scoperto di essere incinta.

Stasera ho acceso una candela anche per loro.

Avevo creduto di avercela fatta. Mi sentivo già mamma. Non avrei ma creduto che una semplice linea su un test di gravidanza potesse donare tanta gioia.
E’ stata dura riprendermi, ancora oggi ripenso a quei due bambini (perché sì, per me erano già tali, anche se c’è chi li considerava solo ammassi di cellule), e non oso pensare a come mi sarei sentita se li avessi persi dopo qualche settimana, mese…!
Non oso pensarlo, ma so con quanta ansia ho vissuto la mia gravidanza, quando finalmente sono riuscita a restare incinta di nuovo. Non facevo altro che pensare a tutte le mamme e i papà che non avevano bambini da stringere a sé…

E in questa giornata così importante riprendo a scrivere, in questo posto dove per anni ho raccontato, con ironia e tristezza, la mia ricerca di un figlio.

Questo posto non è più solo mio.

Ho deciso di donarlo a voi.

Credo tantissimo nell’importanza e nel valore delle parole e della condivisione.

Ho deciso di ospitare qui le vostre storie, i vostri pensieri, i vostri sfoghi e tutto quello che vi passa per la mente, correlato all’infertilità, al percorso di PMA o di adozione, a cosa significa essere genitori “in attesa”.

Non so esattamente come si trasformerà questo posto, credo che lo decideremo insieme.
Mi avete aiutato durante gli anni della mia attesa… Ora voglio ricambiare il favore. Quello che posso fare non è molto… Ma vorrei dare voce ai vostri pensieri, visto che per anni avete letto i miei.

Ed è per questo che ho deciso di cambiare il nome del blog, che d’ora in avanti si chiamerà: “Mentre ti aspetto… Scrivo!”

Se volete collaborare scrivete a: precaria09@hotmail.it

Un abbraccio a tutti e una preghiera agli angioletti che vegliano su di noi.

Pubblicato in: La mia storia

2 anni, 24 mesi, 731 giorni e infinite lacrime

E così, è passato un altro anno.
Tra decisioni, indecisioni, certezze crollate miseramente, sogni affiorati e poi spezzati, equilibri conquistati a fatica e rovinose cadute.

Oggi è il secondo anniversario della mia morte.
Beh, certo, detto così suona troppo drammatico, forse.
La morte segna la fine di ogni speranza. Ed io, di speranza, ne ho ancora.
Nonostante, quel giorno di esattamente due anni fa, che ora pare lontanissimo, qualcosa dentro di me sia morto davvero.

Il 13 gennaio 2012 io e Marito abbiamo scoperto di non poter avere figli. E da allora tutto è cambiato. E tutto è rimasto uguale.

Anche l’anno scorso ho scritto un post per ricordare il nostro lutto.
Sono sempre stata una maniaca delle date, delle ricorrenze.
Io e Marito festeggiamo ancora il mesiversario, per dire. Ricordo la data in cui ci siamo messi insieme, ormai sono passati dieci anni, il giorno in cui abbiamo fatto l’amore o ci siamo detti “ti amo” per la prima volta, il giorno in cui abbiamo deciso di provare ad avere un bambino.

Marito non ha la più pallida idea di che giorno sia oggi. Lui è una frana con le date.
Io non gliel’ho ricordato. Mi avrebbe detto di smetterla di pensarci. E io mi sarei arrabbiata.
E poi, voglio “gustarmi” questo dolore da sola.

Oggi non ho fatto altro che ripercorrere con la memoria quel giorno lontano.
Ricordo tutto, perfettamente. La dura giornata al lavoro, l’incidente d’auto in pausa pranzo, la litigata con i miei, la corsa dalla ginecologa, alla sera, per mostrarle il risultato delle analisi.
E le sue parole: “Voi non potrete mai avere un bambino, mi dispiace.”
Il mio pianto, davanti all’ingresso della clinica. I passanti che mi guardavano come se fossi pazza. Il viaggio in macchina verso casa. Niente autoradio. Solo il rumore delle mie lacrime.

La litigata con mio marito. La mia rabbia verso di lui. Il dolore per entrambi. La consapevolezza che niente sarebbe stato più come prima.
Che quell’attesa, già durata un anno e mezzo, si sarebbe protratta per molto tempo.
La voglia di lottare.
La speranza.

Vorrei sentirmi speranzosa come quel giorno.
Quel giorno è stato il più brutto della mia vita, ma la speranza era diversa rispetto a quella che provo oggi.
Due anni fa credevo che con l’aiuto della medicina tutto sarebbe stato facile.

E’ impossibile che due persone come noi non possano diventare genitori, dicevo.

La speranza c’è ancora. Ma non è più limpida come quel giorno.
Oggi è annebbiata dalla stanchezza, dalla rabbia, dall’insicurezza.

Spero, tra un anno, di non ritrovarmi a scrivere un altro post come questo.