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“Dolce” attesa?

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La prima foto del mio bimbo!

Sono sempre stata più brava a scrivere, piuttosto che a parlare.
Datemi un foglio di carta e una penna (o un documento di Word e una tastiera) e io vi aprirò il mio cuore.
Se pretendete che lo faccia muovendo le labbra e articolando suoni con la voce formando delle frasi di senso compiuto, invece, difficilmente otterrete un risultato.

Questo giorno, invece, è l’eccezione che conferma la regola.
Eh già, perché oggi non mi sento in grado neppure di scrivere.

Sono giorni che ci penso. A cosa scrivere sul blog. Beh, in realtà non proprio giorni. Diciamo che ho avuto altro a cui pensare. Però, sì, ci tenevo che questo post fosse profondo, poetico, memorabile…
Ci tenevo, ma temo che non sarà così, perché non trovo le parole adatte.

Forse ancora non è stato inventato l’aggettivo adatto per descrivere ciò che si prova vedendo per la prima volta il proprio bambino. E il suo cuore che batte.
Dentro di te.
Vedere, sapere che c’è – finalmente – una vita, in un luogo che per tanto tempo hai odiato, in un luogo che temevi sarebbe rimasto per sempre vuoto.
E che, ora, non lo è più.

A volte mi sembra che tutto sia accaduto improvvisamente. E mi sento una stupida a pensarlo, dato che sono quattro anni che rincorro questo sogno.
Ho avuto tanto tempo per pensare, per abituarmi a questa sensazione.
E invece no, non è stato così. Perché nel dolore è difficile pensare che forse potresti raggiungere la felicità. E’ difficile immaginare la felicità.

Sapete, ho sempre ingenuamente creduto che, quando finalmente ce l’avrei fatta, quando finalmente sarei rimasta incinta, avrei provato quell’immensa gioia da sempre sognata. Immaginavo che il test di gravidanza positivo mi avrebbe fatto fare i salti di gioia, e che da quel momento sarebbe stato tutto facile.

Niente di più sbagliato.

Non è stato così.
Non può essere così per una donna che ha vissuto la PMA.
Ogni piccolo successo è un passo in avanti, un passo verso la felicità, ma non puoi mai cantare vittoria. Non puoi mai sentirti pienamente felice, perché la gioia è sempre minata dalla paura.

Il test, poi le beta, le ecografie, le tremende prime dodici settimane, poi gli esami pre-natale…

Giovedì 3 aprile ho fatto la prima ecografia al San Paolo di Milano. Non si è visto nulla a parte la camera gestazionale e il sacco vitellino, delle dimensioni in linea con la settimana in cui mi trovavo. Mi è dispiaciuto non vedere l’embrione, ma sapevo che c’era questa possibilità. La dottoressa mi ha detto di tornare due settimane più tardi, ma io non ho saputo resistere e ho prenotato un appuntamento presso la mia ginecologa di fiducia esattamente una settimana dopo, il 10 aprile.
Certo, c’era ancora il rischio che l’embrione non si vedesse, ma ho voluto fidarmi del mio intuito e rischiare.

E infatti… L’embrione era lì, 6,6 mm di pura bellezza. Sull’ecografo sembrava enorme, se consideriamo che solo sette giorni prima neppure si vedeva!
E poi… Il cuoricino. Io all’inizio facevo fatica a vederlo, mi sembrava tutto una chiazza indistinta (sono anche un po’ miope, lo ammetto), ma poi sono riuscita a distinguere il movimento…
Avrei voluto sentirlo, ma secondo la ginecologa è pericoloso ascoltarlo prima del secondo trimestre, perciò per questo dovrò aspettare ancora un po’.
A me per ora importa solo che il mio bimbo ci sia, e che stia bene. E che il suo cuora batta e che continui a battere per almeno i prossimi cento anni.

No, non ho pianto. Era tutto troppo strano. Dentro la mia testa c’era una vocina che diceva: “Ma davvero tutto questo sta accadendo a me? Davvero c’è una vita, un cuore che batte, dentro di me? Nel mio grembo?”

La risposta è .
Ma è ancora così difficile crederci!

La prossima ecografia è fissata tra un mese. Non posso credere di dover aspettare tanto per rivedere il mio bimbo.
Come farò a sopportare l’attesa?

Io e Marito non siamo molto bravi ad aspettare. E non siamo persone propriamente… Tranquille. Marito è ipocondriaco; un giorno sì e l’altro pure pensa di stare per avere un infarto, e ogni sera viene punto da strani insetti esotici che dubito si trovino nella pianura Padana.
Io sono quella che “se qualcosa può andare male, andrà sicuramente male”.
Insomma, proprio una bella coppia.

Ci stavamo chiedendo se esiste un modo per accorciare i tempi della gravidanza.
Dai, pensateci. Nove mesi sono un po’ troppi. Quando la ginecologa ci ha annunciato la data presunta del parto, 28 novembre 2014, per poco non ci sentivamo male.
Beh, io in realtà l’avevo già calcolata, ma sentirla dire a voce alta… Mi ha fatto venire i brividi.
Credo che un paio di settimane, o al massimo un paio di mesi, siano un tempo più che accettabile per una gravidanza. Certo, capisco che, essendo stato Dio a creare l’essere umano e il suo funzionamento, ci sia ben poco da reclamare, ma…
Sappiamo tutti che ci sono tante cose in questo mondo che non funzionano, per le quali piangiamo e chiediamo a Dio “Perché?”
Chissà, magari un giorno Lui ci permetterà di porgli tutti questi quesiti.

Ecco, in fondo alla lista delle domande, dopo aver domandato al Cielo il perché dei bambini che nascono malati, che muoiono di fame, che vengono abbandonati, il motivo delle guerre, della povertà, e di tutte le tragedie che accadono in questo mondo… Potremmo anche chiedere al Signore perché abbia deciso di rendere la gravidanza così lunga e terrificante. No?

Purtroppo, questi non sono stati giorni tranquilli. Non a causa della gravidanza, anzi sì, ma non direttamente, ho vissuto giorni pieni di rabbia. Rabbia che ho il terrore possa aver fatto male al mio bimbo. Rabbia di cui non ho voglia di parlare, ora, per non rovinare questo post.
Ho insistito con Marito per andare a fare un’ecografia questa settimana, magari al Pronto Soccorso, ma non ne vuole sapere. Forse ha ragione. In fondo non sto male.
Non ho dolori alla pancia, né perdite, le tette sono stra-gonfie come sempre e mi è pure iniziata la nausea.
Però.
Io voglio sapere cosa sta accadendo dentro di me. A detta della ginecologa l’ottava settimana, ovvero quella in cui mi trovo ora, è una delle più difficili, perché statisticamente è quella in cui avviene il maggior numero di aborti spontanei.
Grazie per avermelo detto, eh!
No, no, ora non sono per nulla in ansia! Vivrò una settimana proprio tranquilla!

Il mio compleanno cade a fine giugno. Di solito comincio a pensare al regalo che vorrei (sì, sono venale, materialista, quello che volete) verso fine aprile/inizio maggio. Insomma, in tempo per lanciare a Marito i giusti segnali, sperando che intuisca i miei desideri; tanto, anche se non li dovesse capire, non avrei particolari problemi ad esprimerli chiaramente.
Quest’anno ho già deciso cosa vorrei per il mio compleanno.
E, dato che Marito ha preso l’abitudine di leggere il mio blog, suppongo che presto lo scoprirà anche lui, senza bisogno che gli invii dei segnali.
Vorrei in regalo un ecografo.
Non sto scherzando.
Ho già guardato i prezzi su internet. Ne ho trovato uno portatile a 600 euro e rotti. Dato che quest’estate mi auguro di non andare in vacanza, potremmo anche spenderli questi soldini.

Tanto, cosa ci vuole a fare un’ecografia?
Se avessi un ecografo in casa, potrei vedere il mio bimbo ogni volta che voglio. Osservare il suo battito e tranquillizzarmi.
(Gente, sto scherzando. Lo preciso perché c’è chi ha creduto che parlassi sul serio. Devo sembrare proprio matta.)

Questa attesa, di “dolce”, ha veramente ben poco, almeno finora!
Chi l’ha soprannominata in questo modo, “dolce attesa”, evidentemente non ha mai sperimentato la PMA.

Per una mamma da provetta non solo il concepimento è un vero e proprio percorso ad ostacoli, che può ottenere solo grazie a mille iniezioni e dolori anziché ad una sana notte di sesso col proprio uomo, ma manco la felicità si può godere pienamente!

A metà maggio, tra un mesetto, questi terribili tre mesi finiranno. Allora tirerò un grande sospiro di sollievo. Sì, le tragedie possono accadere anche dopo il terzo mese, ma preferirei non pensarci. Io sono fissata con le statistiche, ed esse dicono che dopo i tre mesi le percentuali di aborto spontaneo diminuiscono drasticamente.

A metà maggio si festeggia. Punto e basta. Sarà così. Deve essere così.

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Un seme di speranza

Rieccomi.

Ho passato dei giorni con il fiato sospeso, per questo non ho più pubblicato aggiornamenti sul blog. In realtà, non avrei saputo cosa scrivere.

Sesamino ci ha giocato uno scherzetto… Ah, scusate, un passo alla volta. Chi è ‘sto Sesamino, dite?

E’ il nome che ho dato al bimbo. Per ora, intendo… Almeno finché non si saprà se è maschio o femmina. Il nome, quello vero, è già pronto e deciso da anni.

Per il momento, comunque, il bimbo si chiama così. Come mi è venuto in mente un nome del genere?
Beh, qualche giorno fa ero su internet a spulciare, finalmente con il sorriso, tutti i diecimila siti che parlano di mamme e gravidanza. E così ho scoperto che, nella settimana di gravidanza in cui mi trovo (la quarta e qualche giorno, se non ho capito male bisogna calcolare le settimane a partire dal primo giorno dell’ultimo ciclo), l’embrione è grosso come un seme di sesamo. Quindi mi è venuto naturale chiamarlo Sesamino. Anche se marito si sbaglia in continuazione e continua a chiamarlo Garofalino. Vabbé.

Come dicevo, Sesamino ci ha fatto preoccupare. Anzi, mi ha fatto preoccupare, perché Marito era molto più tranquillo di me.
Lunedì, 14 pt, ho fatto il terzo dannato esame delle beta. Risultato: 670 e qualcosa
Non mi sembrava un gran numero. Secondo i miei calcoli il valore doveva essere un pochino più alto. Ho cominciato subito ad agitarmi, ad andare in paranoia, come al solito.
Marito, invece, sembrava tranquillo e mi sono inca##ata perché non riusciva a stare dietro ai miei calcoli. Gli ho pure fatto un grafico, ma niente. UFF.

Il centro PMA ha confermato le mie paure. Al telefono l’infermiere, dopo essersi confrontato con la ginecologa, mi ha detto che il valore non era ottimo, e dovevamo sperare che si alzasse, altrimenti… Altrimenti.
Secondo lui al 14 pt il valore delle beta deve essere almeno 1.000. Mi ha consigliato di rifare le beta giovedì, cioè oggi. Naturalmente non ce la facevo ad aspettare tanto e le ho fatte ieri.

Vi lascio immaginare come ho trascorso gli ultimi giorni.
Ho pianto. Più di una volta. Lo so, ancora non era detta l’ultima parola, non c’era motivo di disperarsi, ma… Volevo piangere, e l’ho fatto. Volevo prepararmi al peggio. Cominciare a buttar fuori il dolore in attesa di una brutta notizia che forse sarebbe arrivata, o forse no. Ma magari sì.

Marito ha passato ore ed ore sui forum di CUB e AlFemminile. Ormai è diventato un esperto di beta, crampi alle ovaie, muco, e chi più ne ha più ne metta. Sigh. Forse preferivo quando diceva che solo gli scemi prendono le informazioni da questi siti. Vedrete che presto diventerà un “forumino”. Potrebbe finire il mondo, quel giorno.

Comunque, Marito ha cercato di consolarmi in tutti i modi. In effetti, leggendo su internet le storie delle donne che ce l’hanno fatta e confrontando i loro valori con i miei, ho scoperto che le mie beta erano perfettamente in linea. Nessuna aveva un valore di 1.000 o più al 14 pt.
Io, però, non riuscivo a stare serena. Marito dice che, finché c’è una minima speranza, non bisogna arrendersi.
Invece, io dico che, se c’è anche un solo motivo per disperarsi, è il momento di iniziare a piangere!

Ieri mattina ho fatto l’ennesimo prelievo del sangue. Marito è andato a ritirare le risposte delle analisi dopo poche ore. Quando mi ha chiamato per darmi il risultato, per poco non sono svenuta. Avevo il cuore in gola, letteralmente.
“Sesamino… Non sei stato nominato!” mi ha detto, non appena ho alzato la cornetta.
Io, presa dall’ansia, non ho capito subito la colta citazione, Marito ha intuito che non era il momento di scherzare e finalmente mi ha detto IL NUMERO.
Risultato: 1589
Quando ho chiamato l’ospedale, naturalmente, erano più che soddisfatti e mi hanno persino detto che posso smetterla di fare le beta (ma penso che un ultimo prelievo lo farò lo stesso, tra qualche giorno…).

Mi hanno fissato la prima ecografia per giovedì prossimo, 3 aprile.
Inutile dire che aspetto quel momento con trepidazione e ansia.

Non so cosa si potrà vedere. Ho la speranza di riuscire a vedere Sesamino e sentire il suo battito, ma forse è troppo presto. Su internet ci sono pareri discordanti. C’è chi dice che la prima eco vada fatta verso la sesta settimana, chi dice che è meglio verso l’ottava o, adirittura, la decima… (sì, e nel frattempo io muoio!).

Insomma, non so cosa accadrà. Mi sento come quando da piccola andavo sull’altalena. Io volevo sempre strafare, essere migliore degli altri bambini, così mi spingevo in alto, altissimo, fino quasi a fare un giro completo…!
Ecco, ora mi sento proprio così. Un momento mi sento in Paradiso, quello successivo all’Inferno… O, semplicemente, nel mondo mediocre che ho conosciuto finora.

Ho voglia di festeggiare. Voglio che le prossime settimane passino il più velocemente possibile. Voglio uscire dal terribile primo trimestre per poter, finalmente, festeggiare come merito, come si merita Marito e come si merita pure Sesamino.
Ho voglia di ridere. Di rispondere “Bene!” con allegria sincera quando qualcuno mi chiede: “Come stai?”, e non ringhiare un “Bene” poco sincero e colmo di incazzatura che nessuno può capire.

Ho voglia di liberarmi del dolore della maternità mancata che negli ultimi anni mi ha a poco a poco divorato, manco fossi un maglione lasciato alla mercé delle tarme.

Ho voglia di essere felice.
Senza se e senza ma.

Sono consapevole che nella vita ci saranno sempre dei drammi da affrontare, lutti da elaborare, dolori da sopportare. Che non esiste la felicità totale, spensierata. Perché, in fondo, se non conoscessimo la sofferenza, non sapremmo neppure distinguere la gioia, quando essa arriva.

Ma questo dolore che ho conosciuto negli ultimi anni, io non voglio più sopportarlo. Non voglio più sentirmi vuota.
Voglio affrontare il resto della mia vita, le sue gioie e i suoi dolori, con una famiglia completa. Quella che non ho mai avuto. Che merito di potermi costruire.

Vorrei avere il telecomando di Adam Sandler ne “Cambia la tua vita con un click”.

Intanto, un primo traguardo l’ho raggiunto.
Oggi inauguro una nuova categoria del mio blog. Gravidanza.
Speriamo di continuare a utilizzarla per i prossimi otto mesi e un po’.

Sesamino, non fare scherzi.

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Three is a magic number (la stimolazione della felicità)

uovaLe mie uova

Sono giorni strani, questi. Non belli, non brutti, ma solo… Strani.
I giorni in cui imparo a riconoscere i veri amici. Sono quelli che mi chiedono come sto, quelli che mi ascoltano fingendo interesse quando inizio a parlare di ovociti, provette, spermatozoi… Sono quelli che mi sopportano anche se sono insopportabile, perché sanno che, se mi sono trasformata in una iena (poco) ridens, è solo per colpa di un mix letale di ormoni, tensione e speranza.

Sono i giorni in cui ogni sera condivido un momento romanticomico con Marito, quando ci chiudiamo in una stanza non perché presi da un momento di irrefrenabile passione, ma per scoprirmi la pancia e lasciare che mi faccia una bella iniziezione di follitropina alfa…
Chi non ha vissuto sulla propria pelle la PMA non ha idea di quanto sia importante questo momento. Di quanto amore e speranza ci possano essere in un’iniezione sottocutanea.
Sono i giorni in cui ho scoperto di fidarmi di più della mano insicura e gentile di Marito che tiene una siringa come se fosse un oggetto strano e spaventoso, piuttosto di quella ferma e sicura di un medico.

La Chiesa è contraria alla fecondazione assistita perché dice che uomo e donna devono procreare con amore, unendo i propri corpi, e non ovociti e spermatozoi in una sterile provetta… Io dico che c’è molto più amore tra due persone che cercano un figlio così disperatamente, che non in un uomo e una donna che mettono al mondo un figlio dopo una sveltina, o per ricucire un rapporto ormai morto, o per chissà quale altro, stupido, motivo…

Questi sono i giorni dell’illusione, della speranza. I giorni in cui un attimo tutto sembra possibile, e quello successivo penso che tutto andrà male. Ma poi ricordo che ancora nulla è stato deciso. Che posso ancora sperare, sognare. E sognare è bellissimo.

Sono i giorni in cui a volte mi sfioro la pancia, come se sotto tutti questi strati di ciccia (ciccia non causata solo dagli ormoni) ci fosse già qualcosa… Un piccolo cuore pulsante… Una vita.
I giorni in cui mi vergogno anche solo a pensarlo, di poter essere presto madre. Ché l’idea mi sembra assurda. Ma neanche tanto, in fondo.

Sono i giorni in cui sono costretta a discutere le ferie con i colleghi, e ci rimango male quando mi chiedono se ho intenzione di prendere dei giorni sotto Natale… Perché io, a Natale, spero di avere la mente ben lontana dalle noiose pratiche d’ufficio, e di essere a casa a coccolare il mio cucciolo.

Sono i giorni in cui vorrei che il mondo mi ritenesse già madre, come un po’ faccio io, anche se so che non ha senso. Se non per me.

Questi sono i giorni della stimolazione della speranza, come li chiamo io. Un termine un po’ più romantico di stimolazione ovarica, che dite?

Questi sono giorni frenetici, in cui c’è poco tempo per fermarsi a pensare ma, quando ci riesco, i pensieri belli e quelli brutti si sovrappongono, facendomi impazzire.

Lunedì scorso ho iniziato la terapia con il mio solito, amato-odiato Gonal F, 75 unità, poi 100, e da ieri 125. Lunedì ho fatto la prima iniziezione di Cetrotide, oggi la seconda. L’ago è molto più grosso rispetto a quello che uso per il Gonal. Domani dovrò fare la terza iniezione, ho già paura.
Un giorno sì e uno no devo alzarmi alle 5.30 per andare a Milano a fare i monitoraggi. Sono stanca morta, dato che il viaggio in macchina dura molto più della visita e che, una volta rientrata a casa, dopo essermi data una sistemata (= ripulirmi per togliere il gel laggiù), devo correre al lavoro, per fare in modo di usare il minor numero di ore di permesso possibile.

Ma affronto volentieri tutto questo, se servirà a portarmi da lui.

Ieri, dopo l’ecografia, ho scoperto il mio numero.
Come, quale numero? Il numero della speranza. Il numero magico. Insomma, il numero di follicoli ormai pronti. Sono tre.

Tre, il numero perfetto.
Tre, come la Trinità.
Tre, come il numero di bimbi che vorrei avere.
Tre, come 3Juno, l’asteroide battezzato così in onore alla dea Giunone, divinità del matrimonio, del parto e protettrice degli animali.
Tre, che nella Smorfia è il numero della gatta.

Ho cercato tanti motivi per amare questo numero (e Wikipedia mi ha dato una mano), per convincermi che sia un numero fortunato, ma…
Quando la dottoressa mi ha detto che ho tre follicoli, mi sono sentita morire.

In realtà i follicoli sarebbero molti di più, ma quelli che raggiungeranno le dimensioni giuste per il pick up sono, appunto, soltanto tre.

Tre follicoli. E inoltre bisogna tener conto che in ogni follicolo ci può essere al massimo un ovocita, ma anche nessuno. Si saprà solo al pick up. Considerando che gli spermini di Marito fanno schifo e che la fecondazione non è mai del 100%… Se riusciamo ad ottenere uno/due embrioni siamo già fortunati.

E io che speravo di poter affrontare questo tentativo con più tranquillità. Di riuscire a produrre tanti embrioni, magari di congelarne qualcuno… Così, nel caso in cui fosse andata male di nuovo, avrei potuto riprovare subito con un bel criotransfer…

La dottoressa non capisce la mia agitazione, secondo lei va tutto bene. Per me tre follicoli in una donna di 27 anni è un risultato pessimo.

Ma ormai non posso far altro che sopportare l’attesa. Non è facile.

Domani la dottoressa mi darà la conferma, ma il pick up dovrebbe essere questo venerdì. E, quindi, il transfer il lunedì successivo. Considerando che il centro PMA chiude di sabato e domenica, non potrò neppure chiamare per chiedere se si sono formati degli embrioni oppure no. Vivrò un week end da incubo.

Lo so, mi sto fasciando la testa prima di essermela rotta. Ma io sono fatta così.
Lo so, devo essere ottimista, e bla bla bla.

La mia preoccupazione ha spinto Marito a mettersi alla ricerca di informazioni su internet… E così anche lui è entrato nel vortice di AlFemmile, CUB, e chi più ne ha più ne metta…
Ma questo merita un post a parte. Ecco, solo immaginare Marito che legge i post di donne invasate sui forum mi fa sorridere 🙂

Restate sintonizzate, suppongo che avrò molto di cui parlare nei prossimi giorni 😉

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Ora ricordo che… L’ironia ci salverà

Premessa: Vorrei scrivere sul blog molto più spesso, ma purtroppo, tra lavoro, analisi e volontariato, proprio non ci riesco.
Vi ringrazio perché comunque continuate a leggermi, a commentare e mandarmi e-mail per sforgarmi o sostenermi.
Vi ringrazio veramente con il cuore!

Ora ricordo perché avevo deciso di dire basta alla PMA.
Ora ricordo perché, nel momento in cui avevo fatto questa scelta, mi ero sentita libera e leggera come una farfalla.
Ora che sono rientrata nel vortice medici-analisi-ospedali-farmaci, ricordo tutto.

In questi lunghi mesi di pausa mi ero dimenticata quanto possa essere stressante tutto questo.

Non mi pento della mia scelta. Della scelta di riprovarci.
Il fatto è che sono ritornata ed essere nevrotica, ora che le mie giornate sono di nuovo scandite da analisi, telefonate ai laboratori, lunghe attese al CUP, visite mediche.

Era bello non dover pensare al ciclo, non dover programmare i rapporti sessuali in base agli esami ginecologici o agli spermiogrammi da fare, non dover andare dalla ginecologa un giorno sì e l’altro pure…

Una decina di giorni fa io e Marito siamo tornati all’ospedale San Paolo di Milano con tutti gli esami che la ginecologa ci aveva richiesto.
Finora siamo andati a Milano due volte, e ogni volta sono tornata a casa stanca morta. E tenete conto che siamo andati al pomeriggio. E io non guido neppure.
Non oso pensare a quando dovrò presentare in ospedale ogni due – tre giorni alle otto del mattino per i monitoraggi… Mi dovrò alzare alle cinque!

La mia mutazione, per fortuna, è un ostacolo facilmente superabile con l’assunzione di alcuni farmaci (acido folico e Benexol).
E’ comunque un problema in più, che mi preoccupa.
Marito ha rifatto un altro spermiogramma. Era da tempo che non si sottoponeva a questo esame. Forse aveva creduto di non doverlo fare mai più.
Devo dire che ci siamo fatti delle grasse risate parlando del suo grado di eccitazione alle quattro del pomeriggio rinchiuso nel cesso di un ospedale in una fredda giornata d’inverno… Ma le battute erano abbastanza volgarotte, perciò ve le risparmio 😉
C’è da dire che, per fortuna, gli uomini si eccitano con poco.
Ricorderò sempre ciò che mi disse Marito dopo il suo primissimo spermiogramma. Gli chiesi a cosa avesse pensato per riuscire ad eccitarsi. Lui alzò le spalle e disse: “Boh, a delle donne nude, così…”
Fantastico.

L’esito dello spermiogramma ce l’hanno dato subito. La situazione è sempre grave, ma almeno non è peggiorata da un anno a questa parte, e già questo è un successo, a detta della ginecologa.

Con l’inizio del prossimo ciclo, verso il 25 febbraio, si riparte.
Nuovo ospedale, nuovo programma terapeutico. Questa ginecologa mi ispira molta fiducia. Non oso sperare che accada un miracolo… Ma non avremmo deciso di riprovarci se non sentissimo, in fondo al cuore, che ce la possiamo fare…

La speranza mi fa paura. Ma il fatto è che io VOGLIO sperare. Voglio pensare che, tra poco più di un mese, io potrei essere incinta. Il solo pensiero mi fa tremare.

Le analisi non sono finite. La dottoressa ci ha prescritto tutta una serie di esami da presentare per poterci sottoporre alla PMA. Le solite analisi del sangue (HIV, epatite, ecc.) per entrambi e vari tamponi vaginali per me.

Venerdì è stata una giornata frenetica. Praticamente non sono stata ferma un minuto, in ufficio ero praticamente un fantasma, dato che non facevo altro che uscire e rientrare.

A metà mattina sono andata nella mia farmacia di fiducia per prenotare le analisi del sangue. La mia ditta mi dà diritto ad un quarto d’ora giornaliero per uscire senza dover prendere un permesso.

Quando sono arrivata in farmacia c’erano solo due clienti, e nessuno in fila allo sportello cup.
Fantastico, mi sono detta. Sbagliato.
Sono passati dieci minuti prima che la farmacista si degnasse di ascoltarmi. Uno dei due clienti, un signore anziano, doveva prendere una medicina di cui si era dimenticato il nome. La dottoressa si è fatta descrivere il farmaco, gusto, forma, colore, e gli ha mostrato senza successo un milione di confezioni prima che il signore si decidesse a tornare a casa a chiedere alla moglie (ah, se non ci fossero le donne…).

Un’altra signora, altrettanto anziana, doveva prendere delle fiale di acido folico, che però la farmacista non aveva a disposizione. Altra conversazione di diversi minuti. Beh, dubito che l’acido folico le servisse in previsione di una gravidanza. Se pure la vecchina ottantenne è incinta, allora mi sparo che faccio prima.

Finalmente è arrivato il mio turno. La farmacista mi ha dovuto prenotare gli esami per ben tre volte. Già, perché continuava a sbagliare il costo del ticket. Per farla breve, ci ho impiegato più di mezz’ora, tempo che ovviamente mi verrà decurato dalle mie preziose ore di permesso.

Sono rientrata in ufficio, ho lavorato per venti minuti e poi sono corsa dalla mia ginecologa per fare i tamponi vaginali che avevo prenotato.

Altra attesa infinita allo sportello. Avevo il terrore che nel frattempo la dottoressa mi chiamasse, e di perdere il posto.

Pensavo di sbrigarmi in un paio di minuti, e invece… La mia assicurazione medica aveva sbagliato tutto. La segretaria (l’unica segretaria presente), mentre mi ascoltava non faceva altro che interrompersi per prendere delle telefonate. Io ho cominciato a sudare e imprecavo tra me e me, mimando il gesto di dare delle testate sul bancone. Avranno pensato che sono matta. Chissenefrega.

Dopo una ventina di minuti la segretaria ha deciso che avrei pagato dopo, così non rischiavo di perdere il posto. Mi sono seduta davanti all’ambulatorio della ginecologa e… Quando è arrivato il mio turno, un informatore scientifico del piffero è entrato nello studio. E ci è rimasto un quarto d’ora.

Quando finalmente la ginecolga mi ha ricevuto, ho fatto un’amara scoperta. Credevo che mi avrebbe fatto un solo tampone, che sarebbe bastato per fare tutte le analisi che mi servivano… Eh, no. Troppo facile. Mi ha dovuto fare 7 – SETTE – tamponi. Volevo piangere.

Poi sono tornata dalla segretaria, con tutte le SETTE provette in mano. Abbiamo ricominciato a discutere del pagamento. La segretaria non faceva altro che parlare di gonorrea, clamidia, e via dicendo. E io avevo in mano sette provette. La gente in coda dietro di me avrà pensato che faccio la prostituta, come minimo. Ormai, sinceramente, non mi vergogno più di nulla.

Alla sera, quando sono tornata a casa, ero stanca morta, e naturalmente mi sono sfogata per bene con Marito (che è leggermente influenzato e pare che sia moribondo, ogni giorno dice che non sa se sopravviverà alla notte…).

“Ma ti rendi conto? Ho dovuto fare sette tamponi! Ma sai che male fa? (BALLA COLOSSALE, MA VOLEVO ESSERE COCCOLATA!). Avrò tenuto lo speculum lì dentro per almeno mezz’ora! La dottoressa non faceva altro che infilarmi dei tamponi, uno dopo l’altro!”

Marito è rimasto impassibile.
Dopo un po’, fa: “Beh, neanche un bacino, prima?! Se io non ti faccio un massaggino prima di fare l’amore, sono un mostro!”

Mi sono fatta una bella rista. “Questa la scrivo sul blog!”

Detto, fatto 🙂

Non ne posso più. Odio dover andare ogni giorno dal medico per farmi fare una ricetta, odio passare le mattine in farmacia, odio andare a avanti e indietro dai medici, odio incavolarmi perché gli esami non sono pronti.

Odio pensare che tutto questo potrebbe, ancora una volta, non servire a niente.

Intendiamoci. Non è che il percorso adottivo sia meno stressante, eh. E’ solo diverso. L’adozione è qualcosa che riguarda la tua dimensione emotiva. Non ci sono farmaci o medici di mezzo, a parte lo psicologo, ovviamente.
La PMA è qualcosa di molto… Tecnico, ecco.
Forse sono più brava ad affrontare delle lunghe conversazioni con giudici o assistenti sociali, piuttosto che iniezioni ormonali, analisi, medici…

Ma se abbiamo deciso di intraprendere di nuovo questa strada c’è un motivo. E quel motivo è nostro figlio.

Mi sembra abbastanza per riuscire a sopportare il vortice medici-analisi-ospedali-farmaci.

Vorrei soltanto che tutto questo servisse a qualcosa, ecco.

Ma non posso sapere come andrà a finire. Perciò non mi resta che aspettare e… Riderci su. O, almeno, cercare di farlo.

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2 anni, 24 mesi, 731 giorni e infinite lacrime

E così, è passato un altro anno.
Tra decisioni, indecisioni, certezze crollate miseramente, sogni affiorati e poi spezzati, equilibri conquistati a fatica e rovinose cadute.

Oggi è il secondo anniversario della mia morte.
Beh, certo, detto così suona troppo drammatico, forse.
La morte segna la fine di ogni speranza. Ed io, di speranza, ne ho ancora.
Nonostante, quel giorno di esattamente due anni fa, che ora pare lontanissimo, qualcosa dentro di me sia morto davvero.

Il 13 gennaio 2012 io e Marito abbiamo scoperto di non poter avere figli. E da allora tutto è cambiato. E tutto è rimasto uguale.

Anche l’anno scorso ho scritto un post per ricordare il nostro lutto.
Sono sempre stata una maniaca delle date, delle ricorrenze.
Io e Marito festeggiamo ancora il mesiversario, per dire. Ricordo la data in cui ci siamo messi insieme, ormai sono passati dieci anni, il giorno in cui abbiamo fatto l’amore o ci siamo detti “ti amo” per la prima volta, il giorno in cui abbiamo deciso di provare ad avere un bambino.

Marito non ha la più pallida idea di che giorno sia oggi. Lui è una frana con le date.
Io non gliel’ho ricordato. Mi avrebbe detto di smetterla di pensarci. E io mi sarei arrabbiata.
E poi, voglio “gustarmi” questo dolore da sola.

Oggi non ho fatto altro che ripercorrere con la memoria quel giorno lontano.
Ricordo tutto, perfettamente. La dura giornata al lavoro, l’incidente d’auto in pausa pranzo, la litigata con i miei, la corsa dalla ginecologa, alla sera, per mostrarle il risultato delle analisi.
E le sue parole: “Voi non potrete mai avere un bambino, mi dispiace.”
Il mio pianto, davanti all’ingresso della clinica. I passanti che mi guardavano come se fossi pazza. Il viaggio in macchina verso casa. Niente autoradio. Solo il rumore delle mie lacrime.

La litigata con mio marito. La mia rabbia verso di lui. Il dolore per entrambi. La consapevolezza che niente sarebbe stato più come prima.
Che quell’attesa, già durata un anno e mezzo, si sarebbe protratta per molto tempo.
La voglia di lottare.
La speranza.

Vorrei sentirmi speranzosa come quel giorno.
Quel giorno è stato il più brutto della mia vita, ma la speranza era diversa rispetto a quella che provo oggi.
Due anni fa credevo che con l’aiuto della medicina tutto sarebbe stato facile.

E’ impossibile che due persone come noi non possano diventare genitori, dicevo.

La speranza c’è ancora. Ma non è più limpida come quel giorno.
Oggi è annebbiata dalla stanchezza, dalla rabbia, dall’insicurezza.

Spero, tra un anno, di non ritrovarmi a scrivere un altro post come questo.

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D.G.M. (Donna geneticamente modificata)

Rieccomi.

Il Natale è passato, e anche quest’anno non mi sono lasciata sopraffare dal finto buonismo e dall’ipocrisia che lo circonda.

Abbiamo gettato il vecchio calendario appeso alla parete per rimpiazzarlo con uno nuovo. Ma non è che sia cambiato granché.

Sono giorni strani, a volte apatici, altre volte colmi d’emozioni. E mi rendo conto che devo accettarli così come vengono. C’est la vie.

Dal Tribunale nessune nuove.

Non ho neppure sentito mia madre per Natale.

Ho incontrato mio padre per caso, la sera della Vigilia, mentre passavo a salutare i miei nonni. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Ehi, ma che culone hai messo su?” No, non era ironico. Io gli ho fatto notare che una frase del genere non può di certo aumentare la mia autostima. Lui non ha nemmeno risposto.

Mia nonna sta sempre peggio. Ormai non mi riconosce neanche più. Sono ormai lontani i tempi in cui mi chiedeva se ero incinta, e davanti al mio sguardo triste diceva che un bambino sarebbe arrivato, che dovevo portare pazienza perché anche lei ha aspettato tanto sua figlia…
Ho il terrore che possa andarsene prima di aver conosciuto il suo nipotino.
Io sono nata quando mia nonna stava malissimo, era in preda alla depressione, perché era da poco rimasta vedova. Mio nonno è morto molto giovane. La mia nascita la riportò alla vita. Mi piacerebbe che il miracolo si ripetesse. Ma… Ma.

L’altro giorno abbiamo festeggiato il quinto compleanno di uno dei miei adorati cani.
Ho sempre sognato di vedere mio figlio giocare con le sue “sorelline” a quattro zampe.
Ma il tempo passa, inesorabilmente. E ogni giorno che passa è un giorno triste in più, un giorno strappato alla felicità.

Ogni volta che sto con i bambini della comunità, i miei adorabili selvaggi, mi rendo conto di quanto sarebbe bello essere madre.

Insomma, è cambiato l’anno sul calendario, ma la vita rimane sempre la stessa.

A dicembre io e Marito siamo stati al centro PMA del San Paolo di Milano. La dottoressa con cui abbiamo parlato, capo dell’equipe, ci è sembrata molto in gamba. Ci ha illustrato il loro protocollo, che è diverso e molto più personalizzato rispetto a quello che ho seguito a Reggio Emilia.
Mi ha prescritto decine di analisi (soprattutto genetiche) che finora nessuno mi aveva chiesto, per capire come mai gli embrioni che mi hanno trasferito non hanno mai attecchito. Potrebbero esserci dei problemi, e non essere soltanto colpa della sfiga.

A fine gennaio dobbiamo rivederci per programmare la prossima ICSI, a pagamento. Spero di riuscire a cominciare il trattamento con il ciclo che dovrebbe iniziare a metà febbraio, anche se sarà dura.

Intanto sto cominciando a ricevere i risultati di qualche esame.
Oggi ho scoperto di avere una mutazione del II Allele MTHFR.
Non ho bene idea di cosa voglia dire, ma non mi sembra una cosa buona. Curiosando su internet ho scoperto che questa mutazione è abbastanza frequente e che può essere causa di aborti spontanei, se non trattata con i dovuti farmaci. Farmaci che non ho mai preso, non sapendolo.
Ma vaffanculo, va. A saperlo prima…

Le mie giornate sono nuovamente scandite dal conto alla rovescia per la prossima visita, prelievo del sangue o ecografia. Che gioia.

Intanto cerco di godermi ciò che di bello c’è nella mia vita.

E’ dura, quando hai un pensiero fisso in testa di cui poche persone riescono a capirne l’importanza.
Quando senti le forze scivolarti via, insieme al tempo.
E che diavolo c’entra se sono giovane. E se ho tanto tempo davanti.
Non mi interessa la possibilità di essere felice, un domani.
Io vorrei essere felice. Ora.

Entrare nella mia testa è sempre stato complicato, per tutti.

Ora mi rendo conto che è praticamente impossibile.

Saluti da una donna geneticamente modificata.

Spero di non aspettare il 2015 per scrivere di nuovo.

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Felicità precaria

jenmarley

Ogni tanto ci penso. Mi succede soprattutto quando per strada incontro una donna incinta.
E non posso evitare di guardarla, anzi, di fissare il suo pancione.
Di queste donne sconosciute che incontro non ricordo neppure un volto, uno sguardo, ma saprei descrivere perfettamente ogni pancia…
La forma, la grandezza, il colore della maglietta che la ricopriva…

Ecco, quando vedo una donna incinta non posso fare a meno di pensarci. Di pensare al pancione. Quel pancione che io non avrò mai.

Forse qualcuno di voi penserà che stia esagerando. Che sono giovane, che ho ancora tutto il tempo per cambiare idea e provare nuovamente con la PMA, o aspettare che si avveri un miracolo e ottenere una gravidanza naturale…
Lo ammetto, io sono decisamente lunatica e la mia determinazione spesso è una maschera per celare la paura. Perché io di paura ne ho, tanta. Sempre.
Ma questa volta ne sono sicura. Non voglio più provare con la PMA. Voglio andare fino in fondo con l’adozione. E quando il mio angelo finalmente arriverà, sinceramente non avrò neppure più il tempo di pensare a quel pancione che non avrò mai. E neppure la voglia. Perché avrò realizzato il mio sogno, e non mi servirà nient’altro.

E poi… Devo dire la verità. Quando finalmente il mio bimbo arriverà – anche se non sarà nato dal mio grembo non importa – il mio desiderio di maternità sarà finalmente appagato.
Mio figlio – perché questo sarà – avrà bisogno di tutta la mia attenzione, il mio amore, il mio tempo.
Non potrei mai decidere di riprovare con la fecondazione assistita. Ricordo bene in che razza di mostro mi trasformano le cure ormonali. Il nervosismo, le urla che escono dalla mia bocca senza che io riesca a fermarle in tempo, la tristezza, la depressione.
Quando è dura l’attesa post transfer.
Quanto fa male sperare e poi scontrarsi con l’ennesimo fallimento.

E se andasse bene? Se rimanessi incinta?

Una gravidanza non è mai facile, soprattutto per chi l’ha desiderata e cercata tanto. Non potrei più giocare con mio figlio, non potrei affaticarmi, magari sarei pure costretta a letto per mesi e mesi…

E poi, cosa succederebbe? Dopo la nascita del mio bimbo “di pancia”?

Cosa proverebbe mio figlio, il primogenito? Sarebbe invidioso, geloso? Molti bimbi sono gelosi del fratellino o della sorellina. Ma se tuo fratello o tua sorella sono nati dal grembo di tua madre, mentre tu no, mentre tu provieni da un posto sconosciuto… Cavolo, la gelosia in questo caso sarebbe più che lecita. Non penso che vorrei mai affrontare una situazione del genere.

Sottolineo che con questo discorso non voglio affatto denigrare o rimproverare chi prende una decisione del genere. Ho una cara amica, seppur virtuale, che ha adottato un bambino e sta riflettendo proprio sulla possibilità di provare con la PMA. E avrà tutto il mio sostegno se deciderà infine di seguire questo percorso. Io non sono nessuno per giudicare. Dico solo che io non me la sentirei.
E ammetto anche che potrei cambiare idea. Sono lunatica, ve l’ho detto. Ma è difficile che questo possa accadere.

Il pancione, il pancione… Non me ne frega niente del pancione.
Io voglio solo che il tribunale mi chiami e mi dica: “C’è un bambino per voi.”
Il momento di felicità che ho sempre sognato. Certo, fino a un anno e un po’ fa sognavo questo momento in maniera diversa. Sognavo di svegliarmi al mattino sentendomi strana… Diversa. Sognavo di fare un test di gravidanza e vedere comparire due magiche linee. Sognavo di mettermi a piangere dalla felicità, chiusa in bagno. Sognavo di andare da mio marito, di abbracciarlo e sussurrargli: “Avremo un bambino!” Sognavo che lui mi accarezzasse la pancia, sentendo la vita dentro di essa. Sognavo tante cose. Ora ne sogno altre.
Ora il sogno è leggermente cambiato. Ma va bene lo stesso. Non si può programmare la vita. Non possiamo pretendere di cambiare ciò che è stato deciso da qualcuno più in alto di noi.
E poi, in fondo, l’emozione sarà la stessa. Anzi, forse persino più intensa, perché sarà una gioia sudata, conquistata a fatica.
Quando il giudice chiamerà per dirci che c’è un bambino per noi, non so come reagiremo. Piangeremo, probabilmente. E rideremo. E balleremo con i cani.
Proprio come in quella scena di “Io e Marley”, uno dei miei film preferiti, quando Jennifer Aniston, in attesa di un bimbo, prende il labrador e balla con lui.
Penso spessissimo a quella scena.
E non vedo l’ora di viverla. Anche se non avrò il pancione, ma un bimbo sconosciuto che mi aspetta in un qualche istituto o casa-famiglia.
Un bimbo che diventerà mio figlio.

La cosa che mi da più fastidio è che persone brave, permettetemi di dirlo, come me e Marito debbano soffrire e attendere tanto per realizzare il proprio sogno di avere una famiglia.
Mentre c’è chi una famiglia non la desidera nemmeno e – ops – si ritrova con un bimbo tra le braccia. Un bimbo che magari viene considerato solo un fastidio, mentre per un’altra persona, che invece non riesce ad averlo, sarebbe la realizzazione di un sogno.

Certo, avete ragione, siamo giovani, abbiamo tutto il tempo, e bla bla bla.

Sarà anche vero, ma… A me piace pensare un po’ più in grande.

Nessuno sembra rendersi conto che il nostro tempo su questa Terra è limitato. Molto limitato. E certo, la mia aspettativa di vita sarà di un’ottantina d’anni o forse più, ma in realtà non possiamo sapere quando verrà il nostro momento (sono un po’ tetra, me ne rendo conto, scusatemi).

E io non voglio sprecare un solo attimo del tempo che mi è concesso in questo mondo.
Voglio raggiungere la mia felicità il prima possibile. Non posso neanche pensare all’eventualità di diventare vecchia, di morire, senza essere diventata madre.
Non che il mio mondo ruoti solo attorno a questo, sia chiaro. In questo periodo sto cercando di impegnare la mia mente in tutto ciò che amo. Il volontariato, i miei animali, mio marito, i viaggi, i ristoranti… Ma quello che più desidero è avere un bambino. E vorrei cercare di passare la maggior parte della mia vita nella veste di madre.

A volte rabbrividisco sentendo dire che i figli arrivano solo a chi li merita.

Penso a quei due genitori (di Palermo, se non ricordo male), che qualche giorno fa hanno massacrato di botte il figlio neonato.
Penso a quella donna che soffre di depressione che qualche mese fa ha gettato dal balcone entrambi i figli, perché voleva risparmiare loro le sofferenze della vita.
Penso ai bambini che vengono abusati sessualmente dai genitori.
Penso ai figli degli zingari mandati a chiedere l’elemosina e visti solo come fonte di reddito.
Penso alle donne che rimangono incinta proprio mentre sono concentrate sulla carriera e decidono di abortire.
Penso alle donne che fanno un figlio solo per tenere legato a sé un uomo.
Penso agli uomini che abbandonano (e a volte uccidono, come ci racconta un recente fatto di cronaca) l’amante perché è rimasta incinta.
Penso ai genitori che si lamentano in continuazione perché si devono svegliare di notte per il bambino che piange, perché non possono andare a cena fuori, perché non possono viaggiare…

Penso a tutto questo, e mi chiedo: ma chi afferma che i figli arrivano solo a chi li merita, dove cavolo vive?

La verità è diversa. E’ che la Natura è tanto meravigliosa quanto bastarda e cinica. Ed è cieca, proprio come la fortuna.

E penso che non sia giusto che persone come me e Marito debbano farsi psicanalizzare, frequentare corsi, essere giudicati, per poter avere la possibilità di avere un bambino.
Chi ha psicanalizzato la donna che ha buttato i figli dal balcone? Chi ha scritto una relazione sui due criminali che hanno massacrato il loro piccolo?

Penso che sia triste avere ventisette anni ed essere consapevole che dentro al mio corpo non ci sarà mai una vita. Che mio marito non mi accompagnerà mai alla prima ecografia. Che non avrò mai il pancione.

Ma penso anche che tutti questi brutti pensieri che affollano la mia mente in serate buie come questa svaniranno non appena arriverà il mio bambino. Che non nascerà dal mio pancione, ma chi se ne frega. Sarà mio figlio.
Il pancione prima o poi svanisce, il figlio resta. E’ per sempre una parte di te.
Sì, anche se è adottato. Anche se qualcuno non ci crede. Ma io sì, ed è tutto quello che conta.

E penso che, anche se la Natura è bastarda, il Signore non lo è. E che farà in modo che questa attesa sia breve, perché, se così non fosse, potrei impazzire.

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Something beautiful will come your way

Comincio a crederci. Non che prima non fosse così, ma… Ora ci credo un po’ di più.

All’incirca un anno fa è iniziata questa… Avventura, chiamiamola così. Che è ben lungi dall’essere vicino alla fine, ma il primo grande passo è finalmente terminato. Abbiamo chiuso con la fase dell’istruttoria.

Giovedì ci è stata presentata la bozza della relazione socio-psicologica che i servizi sociali hanno scritto su di noi. L’incontro è durato un’oretta.
La relazione è divisa in due parti: una sociale e un approfondimento psicologico. La prima parte parla delle nostre vite – proprio come se fosse un racconto!- delle nostre famiglie d’origine, il nostro incontro, il nostro stile di vita, dove abitiamo, come passiamo le vacanze…

Devo dire che è strano sentire una persona estranea raccontare ad alta voce la tua vita!

La seconda parte parla di noi da un punto di vista psicologico, come siamo uno nei confronti dell’altra, come abbiamo affrontato la sterilità, le nostre emozioni verso l’adozione e la nostra idea di “bambino immaginario”.

Come ci hanno confermato l’assistente sociale e la psicologa, la nostra è una relazione decisamente positiva.
E questo mi rasserena, perché per il giudice la relazione conta moltissimo. La relazione non parla di alcuna problematica – sociale o psicologica – che dobbiamo risolvere. Ci presenta come due persone serene, equilibrate, che hanno due buoni impieghi e una bella casa, amanti degli animali e della natura; una coppia stabile desiderosa di un figlio e che ha ben chiaro cosa significhi adottare.
Dalla relazione Marito appare come un tipo piuttosto sognatore e attaccato alla famiglia, mentre io come quella più indipendente e “pratica”; ma va bene così, prima di tutto perché è vero, secondariamente perché in questo modo appare evidente che ci completiamo a vicenda 😉

Abbiamo chiesto di correggere un paio di imprecisioni, e l’assistente sociale ha immediatamente cancellato le parti “incriminate” senza discutere.

Sia lei che la psicologa sono state molto disponibili e cordiali come al solito; ci hanno dato le ultime “dritte” e, visto che d’ora in avanti dovremo proseguire senza di loro, ci hanno chiesto di contattarle in futuro per informarle su come prosegue il nostro percorso; prima di salutarci ci hanno fatto gli auguri.

Ora non ci resta che aspettare l’attestato di avvenuta istruttoria, che dovrebbe arrivare in una decina di giorni, e poi potremo – finalmente! – presentare domanda al Tribunale.
La relazione riveduta e corretta verrà spedita direttamente al Tribunale dai servizi sociali. Io e Marito abbiamo già preparato tutta la documentazione da allegare alla domanda.

Ogni Tribunale ha le proprie regole; quello di Bologna richiede:
– modulo di richiesta per l’adozione nazionale
– fotocopia delle nostre carte di identità
– attestato di eseguita istruttoria presso i servizi sociali
– certificato del medico legale dell’ USL
– modulo di consenso all’adozione firmato dai genitori di entrambi più fotocopie dei documenti di identità (se invece i genitori sono deceduti occorre allegare la corrispondente dichiarazione sostitutiva di certificazione).

Inoltre, se la coppia è sposata da meno di tre anni, occorre presentare o una dichiarazione sostitutiva di certificazione (autocertificazione) dello stato di famiglia storico e/o di residenza storico, oppure una dichiarazione sostitutiva di atto notorio relativo alla convivenza continuativa da almeno tre anni.

Io e Marito siamo sposati da quasi due anni, ma conviviamo dal 2008. Purtroppo Marito ha cambiato la residenza solo dopo il matrimonio, perciò rientra nel mio stato di famiglia da troppo poco tempo.

Dopo aver telefonato al Tribunale, al mio Comune, e aver chiesto lumi all’assistente sociale, finalmente sono riuscita a capire in cosa cavolo consiste questa dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Questa mattina io e Marito siamo andati in Comune, l’impiegata ha redatto e firmato una dichiarazione dove affermiamo di essere conviventi dalla tal data, che poi anche noi abbiamo firmato.
Infine ha messo un milione di timbri, e in dieci minuti abbiamo finito. Non abbiamo dovuto pagare alcun bollo, dato che si tratta di una dichiarazione ai fini dell’adozione.

E quindi… Ci siamo.

Un anno fa ero ancora piena di dubbi. Fecondazione, adozione… Sapevo già quale fosse la strada giusta per noi, lo sentivo nel mio cuore, ma sia la lettura di tragiche esperienze raccontate su internet e i commenti dei soliti idioti mi mettevano tanta paura… Ho sentito parlare di assistenti sociali-arpie, di lavaggi del cervello, di visite a casa a sorpresa, di indagini psicologiche insostenibili, di coppie che scoppiano per il troppo stress…
Non dico che casi del genere non possano accadere, ma a noi non è successo. E non succederà.
Non è stata una passeggiata finora (e il meglio deve ancora venire!), è stato un percorso impegnativo ma molto utile.

Andrà tutto bene.

Something beautiful will come your way… Così dice uno dei pezzi del mio cantante preferito.
Dieci anni fa non facevo altro che ascoltare questa canzone… Cercando con tutte le mie forze di credere a queste parole.
E ho fatto bene, perché così è stato. Tante cose belle sono arrivate nella mia vita. Voglio crederci ancora.

Qualcosa di bello arriverà. La cosa più bella.

 

P.S. Grazie mille a tutte per i vostri bellissimi commenti

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Adozione e paure

Prima di affrontare l’argomento di questo post, voglio rispondere a due commenti.

Il primo è quello di Joanne, la quale mi fa notare che:

Spesso parli delle donne che decidono di dare in adozione un figlio come incompetenti, criminali, malate, tossicodipendenti…non è sempre così. Mia cugina è rimasta incinta a 15 anni, e ha deciso di dare il bambino in adozione. Durante la gravidanza è stata seguita da un ginecologo, ha fatto tutti gli esami necessari, ha preso l’acido folico e non ha bevuto nemmeno il caffè. E’ stata una madre, in quei nove mesi, pur sapendo che poi non lo sarebbe più stata. Quando il bambino è nato continuava a ripetere “non fatemelo tenere, anche se lo chiedo non permettetemi di prenderlo in braccio”, è stato terribile, e c’è voluta molta forza per fare quello che lei riteneva assolutamente la scelta migliore. Per questo quando sento generalizzare sulle madri biologiche dei bambini in adozione mi ribolle il sangue.

Oh beh, sapessi quante volte ribolle a me il sangue…

Prima di tutto mi sembra di non aver mai generalizzato, e di aver specificato che in molti (non TUTTI) i casi i bambini dati in adozione provengono da famiglie disagiate, sono stati abusati, maltrattati, hanno patito la fame o il freddo, ecc.
Questo mi è stato detto dall’assistente sociale, dati alla mano.
Sicuramente l’assistente sociale ne sa di più di una persona che ha conosciuto un SOLO caso.

Anch’io sono figlia di una persona schizofrenica eppure sono venuta su bene (ed è sorprendente, da quello che mi dice la mia psicologa), ma questo non toglie che nella maggior parte dei casi i figli di persone con malattie mentali presentano gravi problemi da adulti.

In secondo luogo, ammiro le persone come la cugina di Joanne, che sono riuscite a prendere la decisione più giusta per il bene del bambino, nonostante in precedenza abbia preso di certo scelte altamente sbagliate – a meno che non sia stata vittima di violenza, avere un rapporto sessuale, non protetto tra l’altro, a QUINDICI anni, quando si è poco più che bambine, non è proprio una decisione matura.
Sicuramente è stata supportata dalla famiglia nella decisione di portare avanti la gravidanza e dare in adozione il bambino, ma a quell’età non è comunque facile. Ha tutta la mia stima. E spero che il bambino abbia ora una vita serena, così come sua madre biologica.

Generalizzare non è nel mio stile, ma le statistiche sono vere e dicono quello che ho riportato io.
Poi è ovvio che ci sono le eccezioni. Ma sono, appunto, eccezioni. Punto.

Altro commento, di patalice:

come si fa?
come si fa a decidere di amare una persona che con te non c’entra nulla?
come si fa a decidere di lottare contro una burocrazia ridicola e lungaggini tediose?

(Questa commentatrice vince sia il titolo di “Miss Sensibilità” che quello di “Miss simpatia”…)

Amare una persona che con me non c’entra nulla…?

Mio figlio (perché questo sarà, anche se non nascerà dal mio ventre) c’entra tutto con me.
C’entra con la mia sofferenza, con il mio desiderio di diventare madre, con la mia vita, il mio cuore, che lui riempirà.
Lui mi permetterà di realizzare il mio sogno. Crescere ed amare una creatura che ha bisogno di qualcuno che lo prenda per mano e gli insegni la vita.

Io c’entro con la sua sofferenza.
Perché lui soffrirà, oh sì, e tanto, quando, a mano a mano che diventerà grande, scoprirà la sua storia, il suo passato.
E io allevierò il suo dolore.
Ci cureremo a vicenda.
Siamo entrambe persone che hanno bisogno di essere guarite.

Non c’entra nulla con me…?

Noi giocheremo insieme, piangeremo insieme, io lo cullerò di notte quando piangerà, io gli darò il latte, io gli racconterò le favole, io lo accompagnerò a scuola, io gli cucinerò i suoi piatti preferiti, io lo sgriderò, io gli insegnerò cosa è giusto e cosa è sbagliato…!
Non chi gli ha dato la vita, fisicamente parlando!

Lui o lei si arrabbierà con ME quando gli impedirò di vestirsi con abiti di dubbio gusto (tipo pantaloni da rapper che fanno vedere le mutande, minigonne inguinali, o qualsiasi cosa andrà di moda tra 15 – 20 anni…), mi dirà brutte parole, falsificherà la MIA firma sulle giustificazioni, mi dirà delle bugie per uscire con i suoi amici anziché studiare…
Io lo metterò in punizione, io gli spiegherò perché l’ho fatto, e lui/lei mi abbraccerà e mi chiederà scusa…
Andremo al cinema, in vacanza, a portare a spasso i cani, ovunque lui/lei voglia andare, INSIEME… Vivremo la vita INSIEME…
Il nostro futuro sarà lo stesso. Le nostre vite si intrecceranno, per sempre. Io, Marito e il nostro bambino.

Come si può dire che non c’entra nulla con me…?
Solo perché non avrà i miei occhi, il mio colore di capelli, la mia carnagione, il mio naso, o i tratti di Marito?
Conta tanto l’aspetto fisico?

E allora, a questo punto, cosa c’entra mio marito con me?
Abbiamo avuto due passati diverse, due vite diverse, finché le nostre strade non si sono incrociate e non abbiamo deciso di unirle per sempre.

Spesso un figlio “di pancia” non è una scelta. E’ un errore (ops), una cosa che ti capita senza volerlo, un incidente di percorso…  Non è stato cercato, desiderato…

Un figlio adottivo è una scelta. Viene cercato, desiderato, con tutto il cuore, da persone che veramente lo vogliono. Che lo vogliono amare, guarire, che gli vogliono donare un domani. Che vogliono coronare il proprio amore. E a cui della genetica non importa un fico secco, perché considerano l’AMORE più importante.

A fare sesso e concepire un bambino sono buoni tutti. A fare la madre e il padre, solo chi veramente lo desidera ne è in grado.

E la burocrazia.. La burocrazia è lunga, ma non ridicola.
Pensavo anch’io che la fosse, ma non è così. Solo chi ci è passato può capirlo.
Il corso, i colloquio con i servizi sociali, tutto è stato utile.
E’ stato utile per il nostro bambino, perché così avrà due genitori preparati a crescerlo, è stato utile per noi, perché siamo maturati come persone.

I tempi del tribunale sono lunghi semplicemente perché in Italia ci sono pochi bambini adottabili rispetto alle coppie che si propongono.

E questo non possiamo cambiarlo, ma solo accettarlo.

Mi sembra di sprecare energie scrivendo queste parole, perché tanto so che, chi non vuol capire, chi non ha interesse a capire, non capirà mai.
E va bene così.
L’adozione non è per tutti.

E l’amore, in fondo, non si può spiegare.
C’è chi ha un cuore grande, chi un cuore piccolo, chi proprio non ce l’ha.

Ed ora passiamo a quello di cui volevo veramente parlare.

Come promesso, in questo post affronteremo un argomento molto importante per tutte le coppie che stanno pensando di intraprendere il cammino dell’adozione.
Le paure.

Quali sono le paure che accomunano tutti gli aspiranti genitori adottivi?
Per esperienza personale, e dopo essermi confrontata con altre coppie, sono giunta alla conclusione che i timori più frequenti sono:

– Che i servizi sociali non giudichino la coppia idonea
– Che il bambino sia malato
– Che un giorno decida di trovare le sue origini
– Che non riconosca mai i propri genitori adottivi come la sua mamma e il suo papà
– Il giudizio degli altri

Forse non l’avrete notato subito, ma c’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo.
Tutte queste paure sono riferite alla coppia, e non al bambino bisognoso di una famiglia.
E questo è un modo errato di pensare. Anch’io ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma alla fine ce l’ho fatta.

Abbiamo paura che i servizi sociali non scrivano una relazione positiva perché non vogliamo rischiare che ci venga impedito di realizzare il nostro sogno più grande, non vogliamo che il bambino sia malato perché dopo aver sofferto tanto per “ottenerlo”, ecchecavolo, vogliamo che almeno sia sano come un pesce, speriamo che non desideri mai rintracciare la sua famiglia biologica perché lui è nostro, e soltanto nostro, e temiamo il giudizio degli altri perché vorremmo che il nostro figlio di cuore sembrasse anche nostro figlio di pancia, e non vogliamo dover rispondere ad insulse domande.

Non mentiamo. Il desiderio di adottare nasce, nella maggior parte dei casi, dall’egoismo di una coppia, dal desiderio di avere un figlio anche quando Madre Natura ci è avversa. Non è che ci sottoponiamo ad analisi psicologiche, affrontiamo corsi, burocrazia, tribunali, solo per altruismo o per bontà…
Ma questo è probabilmente l’egoismo più bello che ci sia.

Anch’io ho avuto (e ho) tutte queste paure, certo. E pure Marito.
Ma ho capito che stiamo guardando la situazione dal punto di vista sbagliato.
La parte debole NON siamo noi.

Tutta la sofferenza che abbiamo patito a causa dello scherzetto di Madre Natura non è nulla in confronto al dolore di un bambino che è stato abbandonato o, peggio ancora, maltrattato o abusato.
La parte debole è LUI. Non noi.

Nella maggior parte dei casi, se i servizi sociali non giudicano la coppia idonea, significa che è davvero così. Significa che la coppia in questione non è abbastanza preparata, o matura, per affrontare questo percorso. Ed in questo caso è meglio che gli aspiranti genitori riflettano prima di riprendere il cammino.
Alla coppia questo può sembrare ingiusto, verso di loro, ma è la cosa più giusta da fare per il loro futuro bambino.
(Ovviamente escludo i casi in cui gli assistenti sociali sono degli incapaci, o prendono in antipatia la coppia, ecc ecc… Fortunatamente, da quello che ho letto mi pare che non accada spesso).

Eventuali malattie del bambino. Di questo ho già parlato. Alla coppia viene data ampia libertà di scelta riguardo alle malattie, ma è ovvio che non bisogna essere troppo rigidi.
Io e Marito non abbiamo dato la disponibilità per le malattie gravi perché non ci sentiamo in grado di affrontarle, ma non abbiamo problemi riguardo malattie “minori”.
Un bambino dato in adozione non può essere un bambino completamente sano, né da un punto di vista fisico, né mentale. Non è possibile.
Spesso i bambini vengono abbandonati proprio perché hanno dei “difetti” (da quello che ci ha detto l’assistente sociale, questo accade soprattutto tra i rom). E come può non avere problemi un bambino che magari è stato picchiato, o abusato sessualmente, o anche soltanto abbandonato in ospedale dalla propria madre? Voi come stareste, al suo posto?
Magari il bambino sarà tranquillissimo, riuscirà ad elaborare tutto quanto grazie al vostro amore. Ma questa è un’eventualità remota.
Molto più probabilmente da bambino avrà atteggiamenti aggressivi verso i genitori e verso i suoi coetanei, e da adolescente manifesterà il suo disagio in un qualche modo, che sia la solitudine o atteggiamenti eccessivi (droga, alcool, gioco d’azzardo…).
Un genitore adottivo deve essere pronto a tutto questo. E deve mettersi nei panni di suo figlio. Empatia è la parola d’ordine.
Ovviamente non si può essere pronti a tutto. Le situazioni vanno affrontate una volta che si presentano, anche perché non si può sapere in anticipo come si comporterà da grande un bambino adottato!

Ma bisogna sapere che, prima o poi, in un modo o nell’altro, manifesterà un disagio (come tutti gli adolescenti, d’altronde).

La ricerca delle origini. Un sogno per il bambino adottato, un incubo per i suoi genitori “di cuore”.

In tutte le famiglie occorre parlare, ma quando è presente un bambino adottato bisogna parlare ancora di più.
Occorre spronare fin da piccolo il bambino a parlare di sé, aiutarlo ad elaborare i ricordi, a capire cosa gli è successo, ovviamente con parole adatte per la sua età.
Parlare, parlare, parlare. E spingerlo a esprimere le sue emozioni. Solo così lo si può aiutare a superare il trauma per quello che gli è successo.

Mi è rimasta impressa una conversazione che ho avuto con un signore presente al corso per l’adozione.
Questo signore ha un fratello che ha adottato un bambino da un Paese dell’Est Europa. Il bambino rifiuta totalmente le sue origini, non vuole neppure sentir nominare il suo Paese, e i suoi genitori adottivi sono contenti così.
Il signore in questione mi ha confidato che spera che anche il suo futuro bambino si comporti in questo modo.
Ecco, questo è un atteggiamento COMPLETAMENTE SBAGLIATO.
Se un bambino adottato esprime tanto astio verso la sua terra natia, significa che c’è un problema. E grosso, anche.
Una rabbia repressa che prima o poi esprimerà, magari in un modo malsano.

Noi stiamo puntando sull’adozione nazionale, per ora, ma questo non vuol dire che nostro figlio sarà italiano. Potremmo benissimo essere abbinati ad un bambino straniero abbandonato qui in Italia.
Se dovesse essere di un’etnia diversa dalla nostra (rom, africano, ecc.), noi cercheremo in tutti i modi di mantenere vivo il legame con la sua terra, imparando le usanze, anche un po’ di lingua, le ricette… E questo sarebbe un grande arricchimento anche per noi!

Un giorno nostro figlio potrebbe decidere di fare delle ricerche per ritrovare i suoi genitori naturali. In Italia la legge impone che il figlio adottivo abbia compiuto 25 anni prima di poter accedere agli atti che lo riguardano presso il tribunale.
Mi auguro che, quando avrà 25 anni, mio figlio sarà maturo e in grado di fare scelte consapevoli.
Ovviamente saprà già tutto, da me e Marito, riguardo al suo passato, o almeno quello che saremo in grado di dirgli.

Questa eventualità non mi fa paura.
Io sono certa che sarò una buona madre, e che lui, o lei, mi amerà.
E capisco anche il desiderio di cercare le proprie origini. Mi auguro che, quando deciderà di partire verso il suo Paese, o deciderà di andare alla ricerca di sua madre o suo padre biologici, che sia qui in Italia o altrove, lui mi chieda di accompagnarlo.
Sarebbe il regalo più bello che potrebbe farmi. La sua FIDUCIA.

Se io venissi abbandonata, o tolta dalla mia famiglia, penso che farei lo stesso. Ad un certo punto sentirei il bisogno di rintracciare le mie origini. Ma questo non vuol dire che scorderei chi mi ha dato LA VITA, la gioia, il futuro, l’amore.
E se poi volesse mantenere i contatti con sua madre o suo padre naturali… Beh, il cuore non ha confini. In un cuore c’è posto per tutti.
Ma so anche che è difficile che un bambino adottato possa un giorno avere quattro genitori… Perché, purtroppo, ripeto, SPESSO i motivi per cui questi bambini vengono abbandonati o tolti alle proprie famiglie sono veramente ORRIBILI.
Dubito altamente che un bambino che è stato abusato desideri ritrovare la madre naturale, o che riesca ad instaurare con lei un rapporto sano. E dubito anche che una “madre” del genere possa essere interessata a recuperare il rapporto con il frutto del suo grembo (frutto indesiderato e odiato, in molti casi).
L’eventualità, comunque, esiste. E non mi fa paura.

E non ho paura neanche della possibilità che mio figlio non mi chiami mai “mamma”, o che non chiami mio marito “papà”.
Parlando con altri genitori adottivi, ho scoperto che, contrariamente a quanto pensavo, i bambini adottati si abituano velocemente al nuovo ambiente, alla nuova famiglia. E impiegano poche settimane, a volte pochi giorni, per cominciare a chiamare lei “mamma” e lui “papà”.
Io amerò mio figlio con tutta me stessa. Ma se non riuscirà a chiamarmi “mamma” e vorrà chiamarmi per nome, va bene lo stesso. Lo capirò, lo accetterò.
Ma, sinceramente, dubito che questo possa accadere. Sia perché a noi verrà dato un bambino molto piccolo (entro i 3 anni) e sappiamo tutti che i bambini, più piccoli sono, più si abituano velocemente ai cambiamenti… Sia perché, con tutto l’amore che gli darò, gli verrà naturale chiamarmi “mamma”.
Non subito, forse. Ma, quando lo farà per la prima volta… Quello sarà il momento più bello della mia vita.

Il giudizio degli altri.

Io ho un problema. Che è anche una virtù, ma più spesso un problema.
Sono estremamente sensibile.
Cerco sempre di atteggiarmi da cinica, di fingere che l’opinione altrui non mi interessi, ma la verità è che quando qualcuno, che sia un conoscente o un amico poco importa, dice qualcosa di brutto nei miei confronti, io non riesco a rimanere indifferente. Ci sto male.

Quando una coppia adotta un bambino, le reazioni della gente che incontriamo quotidianamente può essere di due tipi: stupore positivo, o stupore negativo.
L’adozione non viene ancora considerata un fatto normale.
Le persone che sanno che vostro figlio è stato adottato lo guarderanno e vi guarderanno sempre in maniera diversa, un misto tra elogio e compassione.
Mentre tutto quello che noi vorremmo è essere considerati “normali”.
Normali non li saremo mai. Fateci l’abitudine.

Quando ho confidato al mio capo nucleo che ho intenzione di adottare un bambino, lui ha sgranato gli occhi e mi ha detto: “Tu e tuo marito avete proprio un grande cuore!”
No, non abbiamo un grande cuore.
Abbiamo solo un grande desiderio di avere un famiglia.
Se potessimo avere figli, non adotteremmo. O forse sì, ma dopo aver avuto un figlio naturale.
Non siamo dei santi, io non sono Madre Teresa di Calcutta e Marito non è Padre Pio.
Siamo solo due sfigati che cercano la strada per la felicità.

Ma non ho detto niente di tutto questo, e mi sono limitata a sorridere.

Non ho un grande cuore. Ho tanta voglia di essere mamma. E tanta sofferenza dentro di me.
Ma, chissà, forse questo vuol proprio dire avere un grande cuore. Altrimenti, come potrei contenere dentro di me tutto questo?

Anche se è stato superficiale, il mio capo ha detto una cosa bella, politically correct, per lo meno.

Ma non tutti sono come lui.

Purtroppo sono circondata da molte persone immature, ignoranti e talvolta anche un po’ maligne.

C’è chi mi ha detto, ridendo, che, se ci dessero in adozione un bambino grande, potrebbe diventare il mio amante, oltre che mio figlio…!!

Chi mi ha ricordato, con una malignità incredibile, che i bambini adottati vanno sempre alla ricerca dei genitori “veri”, prima o poi…

Che poi, oltre alla cattiveria, è anche l’ignoranza a sconvolgermi.

Ma queste persone sanno che nella maggior parte dei casi i bambini adottati sono stati maltrattati, abusati sessualmente, o figli di genitori psicopatici?
Voi vorreste rintracciare una madre o un padre che vi hanno violentato da neonati? Sì, questo orrori succedono, e spesso anche. Quando l’assistente sociale me l’ha detto sono rimasta a bocca aperta.
I casi come quello della cugina di Joanne sono rari. Esistono, ma sono rari, almeno qui in Italia (oh, devo continuare a specificarlo, non vorrei essere additata di nuovo come quella che fa di tutta l’erba un fascio…).

Quello che avrei voluto rispondere, in realtà, ma non ne ho trovato la forza perché mi mancava il fiato, è: “Certo, può essere che un figlio adottivo senta prima o poi il bisogno di ritrovare le sue origini. Per questo l’adozione non è per tutti. Per questo solo una persona forte come me può affrontarla.”

E poi ci sono gli amici e i parenti. Che non sempre parlano per il tuo bene. Che a volte aprono la bocca a sproposito, senza mettersi nei tuoi panni, ma pensando solo a se stessi. Empatia è una parola sconosciuta alla maggior parte delle persone, anche a quelle a cui vogliamo bene. Ma con loro è difficile arrabbiarsi, e spesso ci tocca mandar giù bocconi molto amari.

Quando ho iniziato il corso informativo per l’adozione ne ho parlato a lungo con due miei colleghi-amici di cui mi fido, entrambi sui cinquant’anni. Sono persone mature che mi vogliono bene, mi trattano un po’ come una figlia, ma, sia a causa delle loro vicissitudini personali che per la loro età, faticano a capire le mie scelte.
Ai loro tempi nessuno si sottoponeva alla PMA, non era ancora una pratica diffusa. Faticano a mettersi nei miei panni e capire il mio desiderio di maternità, che per loro sembra un’ossessione.
Quando ho detto loro che al corso erano presenti diverse coppie della loro età, o poco più giovani, lei ha strabuzzato gli occhi e, rivolta all’altro collega, ha esclamato:

“Gente della nostra età?! Oddio, ti immagini dover andare ad un corso, e fare tutte quelle cose lì? Ma chi ne ha la voglia? Quelli sono pazzi!”

No, non sono pazzi.
Loro desiderano un figlio, e tu no.
Questa è la differenza.
E questa “piccola” differenza cambia tutto. Questa piccola differenza dona loro una forza che voi non potrete mai avere.
Ho provato a dirglielo, ma non credo abbiano capito.

Qualche mese fa ho parlato per la prima volta di adozione con una mia amica, la solita amica di cui a volte parlo, poco più che trentenne, mamma di un bimbo di un anno concepito con il primo rapporto non protetto con suo marito.
(Alla faccia degli spermatozoi).

Nel suo caso, la reazione è stata assolutamente normale. Non indifferente, ma normale, come se la avessi confidato che avevo intenzione di comprare un vestito nuovo.
“Non vuoi più fare la PMA? Ora vi concentrate solo sull’adozione? Ma sì, fate bene!”
Non è che io sia incontentabile, eh.
Ok, voglio essere trattata come una persona “normale”, ma… Cazzo, non ti ho detto “ora vado in centro a fare shopping”. Ti ho detto che ho rinunciato per sempre all’idea di concepire un figlio naturale e che intendo farmi psicanalizzare, studiare, da degli estranei, andare in giro per tribunali, attendere, se va bene, qualche anno per avere un figlio che tu hai avuto con UN RAPPORTO SESSUALE, UNO!

Non voglio essere vista come una Madonna né come una sfigata, ma almeno fingere interesse, fare qualche domanda, insomma…

Ma il massimo è stato quando ho parlato con mia nonna paterna dell’adozione.
Lei è l’unico membro della mia famiglia con cui io abbia un vero e proprio rapporto. Le racconto cosa succede nella mia vita, le mie paure, le mie speranze.
Quando le ho parlato della PMA, all’inizio ci è rimasta male, sia perché non si aspettava che io e Marito avessimo problemi simili, sia perché certe pratiche mediche per lei sono una novità. Ma si è abituata presto all’idea, e in poche settimane ha iniziato lei stessa a consigliarmi degli ospedali a cui rivolgermi!

La sua reazione è stata più o meno la stessa con la notizia dell’adozione.
Quando le ho detto di aver deciso di smetterla con la PMA e che io e Marito avevamo già iniziato le pratiche per adottare un bambino, lei ha esclamato:

“Eh? Ma perché? Subito? Non potete aspettare ancora un po’? Magari arriva, un bambino! Ma perché non provi di nuovo con la fecondazione? Mi hanno appena consigliato un nuovo ospedale…”

La sua reazione mi ha fatto male. A lei non importava nulla di me. Non mi ha chiesto perché avessi preso quella decisione. Voleva solo che facessi come voleva lei.
Ho capito che in questi casi bisogna mostrarsi duri e determinati, per far capire alle persone che ci circondano che sì, siamo sicuri della nostra scelta e no, non accettiamo consigli, perché nessuno, a meno che non si tratti di qualcuno che ha vissuto lo stesso dolore, può dirci cosa fare.

“No, nonna. Sono quasi quattro anni che proviamo ad avere un bambino. Non possiamo averlo, non riusciamo, anche se aspettiamo mille anni. E la fecondazione non la voglio più fare. In fondo è il mio corpo che ci va di mezzo, non il tuo. Sono io a scegliere. E non vogliamo aspettare per l’adozione. NOI SIAMO FELICI COSI’. Il nome di quell’ospedale non mi interessa.”

NOI SIAMO FELICI COSI’.
Ma a qualcuno importa?
Alla gente importa solo puntare il dito, dare consigli non richiesti, senza ascoltare le parole e le emozioni di chi sta dall’altra parte, di chi sta realmente vivendo quella sofferenza.

Mi sono resa conto che la gente è molto egoista. E, al contrario di quello che porta alla scelta di adottare, questo è un egoismo negativo.
L’amica è talmente concentrata sul suo bambino da non vedere nient’altro, gli amici che non vogliono figli non si sforzano di capire, la nonna ha paura di ritrovarsi un pronipote che non le assomiglia, i colleghi cercano il gossip…

Non c’è nessuno, e dico nessuno, che mi abbia chiesto: “Ma tu, sei felice? Come lo immagini il tuo futuro? Sei dispiaciuta di aver rinunciato ad un bambino di pancia? Sei sicura della tua scelta? Se sei sicura, io sono felice per te e ti sosterrò. C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?”

Questo vorrei sentire.

Alle battutine, all’ignoranza, alla superficialità, mi dovrò abituare.
Ma, soprattutto, dovrò imparare a rispondere per le rime, senza arrabbiarmi, ma con eleganza ed ironia.

Perché siamo solo all’inizio.

E devo imparare anche perché un giorno dovrò insegnare a mio figlio come replicare alle stesse domande.

Pubblicato in: La mia storia

Verde speranza

Quante cose da raccontare. Quante emozioni, quanta paura, quanta confusione, quanta speranza.

Speranza è la parola chiave nella mia vita, ora.

Ed è di color verde speranza che, pian piano, stiamo dipingendo la camera del nostro bimbo (sì, mi piace mettere le mani avanti – Marito teme che voglia iniziare a sfogliare i cataloghi delle università…).

La settimana scorsa mi sono concessa, in occasione del mio compleanno, una vacanza da sola di qualche giorno. Sono andata a trovare una mia amica e insieme siamo andate al concerto del nostro cantante preferito. Dieci ore in coda sotto al sole… Ma ne è valsa la pena. Mi sono sentita ringiovanita. La stessa pazzia l’abbiamo compiuta esattamente dieci anni fa, per lo stesso cantante. Quell’evento aveva rappresentato una specie di spartiacque nella mia vita. Io, che sono tanto cinica ma anche tanto romantica, non posso che sperare che anche stavolta avvenga lo stesso…

E poi… Squilli di tromba, please

Ieri io e Marito abbiamo affrontato l’ultimo colloquio con i servizi sociali! Manca soltanto la visita domiciliare, che abbiamo fissato per la settimana prossima, e poi finalmente avremo terminato la fase dell’istruttoria.

Non amo particolarmente parlare di burocrazia, preferirei concentrarmi sulle emozioni. Visto, però, che su internet sono poche le coppie che parlano approfonditamente del percorso adozione e vorrei che questo blog fosse utile per chi è alla ricerca di informazioni… Farò uno strappo alla regola.

Le regole cambiano un po’ da regione a regione, perciò ovviamente io spiegherò come funzionano le cose da noi, in Emilia Romagna.

Una volta terminata la fase dell’istruttoria (composta ad un certo numero di colloqui, a discrezione dei servizi sociali, e della visita domiciliare) i servizi scrivono una relazione, che viene in seguito letta e sottoscritta dalla coppia. A noi verrà letta a fine agosto, quindi circa un mesetto dopo la fine dei colloqui, ma la tempistica può variare in base al periodo e agli impegni degli assistenti sociali.

Una volta firmata la relazione, essa viene inviata dai servizi sociali al Tribunale dei Minorenni di competenza, nel nostro caso quello di Bologna.

Dovremo aspettare di ricevere dal Comune un attestato in cui è dichiarato che abbiamo terminato la fase dell’istruttoria, e solo allora potremo presentare domanda di adozione presso il nostro Tribunale di competenza ed eventualmente, se lo vogliamo, anche presso altri tribunali (io penso che lo invieremo a tutti i tribunali d’Italia…).

La domanda può essere inviata online, ma deve essere spedita anche in via cartacea (strano, lo so) e non ci sono bolli da pagare. Dev’essere corredata da una serie di documenti, tra cui uno dove la coppia riassume i propri dati (tra i quali anche la “composizione” dell’abitazione) e la propria disponibilità (età del bambino, preferenze di etnia, malattie accettate, ecc.) Questo documento può essere scaricato dai siti dei vari tribunali, ma i servizi sociali ce ne hanno già data una copia.

Se la coppia è sposata da meno di tre anni, come noi, può presentare domanda a patto che conviva da almeno tre anni. Bisogna avere pronti due testimoni (uno può essere il marito o la moglie, l’altro un parente o un estraneo) perché in certi casi il tribunale chiede che vadano a depositare una dichiarazione giurata in cui affermano che la coppia ha effettivamente convissuto a partire dalla tal data…

Inoltre alla richiesta di adozione bisogna allegare un documento (anche questo scaricabile da internet) in cui i genitori di entrambi i coniugi dichiarano il loro consenso all’adozione. Bisogna anche allegare la copia di un documento di identità dei genitori. Per me questa, come ho già detto in passato, è una cosa assurda, ma è la legge italiana… E dobbiamo accettarla (sopportarla).

In seguito, il giudice del tribunale di competenza chiama la coppia per un colloquio conoscitivo (a Bologna i tempi medi sono di tre mesi dalla deposizione della richiesta).

Poi l’iter cambia se si intende proseguire con l’adozione nazionale, l’internazionale o entrambe.

Nel caso di adozione nazionale la domanda resta valida per tre anni, e il giudice contatta la coppia quando riceve la pratica di un bambino adottabile per il quale ritiene la coppia adatta. Attenzione, però, perché il bambino non viene proposto solo ad una coppia, ma a diverse… Sarà poi il giudice a decidere, dopo un colloquio, quale è la più adatta (il colloquio è una specie di “provino”, insomma).

L’assistente sociale ci ha detto che per la nazionale è facile essere chiamati dal giudice entro il primo anno dalla deposizione della domanda (quando il colloquio fatto con il giudice è “fresco” e si ricorda della coppia) oppure verso la fine dei tre anni, quando le domande in scadenza vengono riviste.

Nel caso di adozione internazionale il tribunale emette un decreto di idoneità, che la coppia deve presentare all’ente autorizzato attraverso il quale ha intenzione di procedere con il percorso adottivo.

La lista degli enti autorizzati si trova qui.

Si può anche procedere con entrambi i percorsi contemporaneamente, ma bisogna stare attenti perché alcuni enti chiedono la rinuncia alla nazionale quando si da loro l’incarico, mentre invece altri, ma sono pochi, permettono di continuare con l’adozione nazionale fino al momento dell’abbinamento con un bambino straniero.

E ora che abbiamo parlato di burocrazia… Parliamo di altro.

La fase dell’istruttoria, i colloqui con i servizi sociali per intenderci, è quella che di solito fa più paura agli aspiranti genitori adottivi. Anche io ero molto timorosa, ma devo dire che è andata bene. Non è stata sicuramente una passeggiata, e di certo dipende dall’assistente sociale e dallo psicologo che ti capita, ma… E’ andata bene.

Finora credo di aver parlato soltanto dei primissimi colloqui che abbiamo sostenuto con i servizi. Abbiamo iniziato facendo una chiacchierata generale, poi sia io che Marito abbiamo parlato della nostra vita, dall’infanzia all’età adulta (rapporto con i genitori, amici, scuola, lavoro, ambizioni…).

In seguito ci è stato chiesto di raccontare il nostro incontro, come ci siamo innamorati e cosa ci piace l’uno dell’altra. E qui abbiamo fatto ridere sia l’assistente sociale che la psicologa, perché il nostro incontro è stato decisamente divertente!

Nei colloqui successivi abbiamo parlato della decisione di avere un bambino, della scoperta della sterilità, del “lutto biologico” e della scelta adottiva. E’ stata la fase più difficile, ma anche la più liberatoria.

L’assistente sociale la settimana scorsa ci ha addirittura assegnato un “compito”… Voleva che io e Marito preparassimo qualcosa, una specie di regalo, fatto con le nostre mani, per il futuro bimbo, dove dovevamo descrivere il nostro passato, il presente e il futuro.

Marito ha realizzato un video, molto commovente, ispirandosi al film “La ricerca della felicità”, il famoso e bellissimo film con Will Smith.

Io, invece, ho fatto un collage di foto, su un cartellone a forma di cuore, che è piaciuto molto!

Infine, negli ultimi due colloqui, ci siamo concentrati sulle nostre aspettative di genitori adottivi, sul bimbo “immaginario”, sulle paure e la disponibilità.

Già, la disponibilità… Ci sarebbe da parlare ore ed ore solo su questo.

Io sono entrata nel mondo dell’adozione già abbastanza preparata e informata (quante giornate passate su internet ad imparare le leggi a memoria!) ma mi sono resa conto che sono tante, tantissime, le cose che ignoravo.

La coppia non deve soltanto scegliere tra adozione nazionale o internazionale e l’età del bambino, o accettare l’eventuale presenza di malattie gravi oppure reversibili; i servizi sociali ci hanno messo di fronte a tutta una serie di decisioni alle quali sinceramente non avevo mai pensato.

L’assistente sociale ci ha spinto a proporci, almeno inizialmente, solo per l’adozione nazionale, visto che è quella su cui “puntiamo” maggiormente. Ci ha consigliato di aspettare un anno, e poi, eventualmente, chiedere al Tribunale il decreto di idoneità per quella internazionale.

Per quanto riguarda l’età noi volevamo dare la disponibilità per la fascia 0-5 ma, visto che non è possibile (si può dare la disponibilità per bambini fino a tre anni, oppure fino ai sei anni) e visto che siamo abbastanza giovani, è stata proprio l’assistente sociale a consigliarci di proporci per bambini fino a tre anni. Ci ha anche detto che abbiamo buone possibilità di essere abbinati ad un neonato, ma sinceramente questo per me non ha più tanta importanza.

Poi c’è il discorso “etnia”… Anche se si tratta di adozione nazionale non significa, come in molti credono, che sicuramente verrai abbinato ad un bambino italiano, anzi! Molto spesso possono capitare bambini di colore, oppure rom, o di altre etnie. L’assistente ci ha chiesto se avremmo dei problemi ad accogliere un bambino di un’etnia diversa dalla nostra, che magari in futuro deciderà di seguire una religione a noi estranea (ma noi non siamo di certo cattolici invasati, quindi… Chi se ne frega!).

Per noi l’aspetto “etnia” è assolutamente irrilevante, e comunque sono sicura che questa fosse una domanda abbastanza “retorica”… Di certo una coppia che afferma di volere solo e soltanto un bimbo bianco, ariano e magari pure dal sangue blu non può ricevere una relazione molto positiva!

Abbiamo anche parlato del discorso malattie, che io, ingenuamente, pensavo fosse il più semplice da affrontare. Credevo che la scelta fosse soltanto tra malattie gravi (come sindrome di Down, ad esempio, oppure cecità o sordità), o malattie reversibili (miopia, strabismo, difficoltà nel linguaggio). Invece le cose non stanno proprio così.

Inizialmente la scelta che ci hanno chiesto di fare verteva proprio su questo; io e Marito, che ne avevamo già parlato tra di noi, ci siamo detti disponibili ad accogliere un bambino con una malattia curabile, perché non ci sentiamo in grado di gestire malattie gravi, anche per mancanza di tempo, visto che per sopravvivere dobbiamo lavorare entrambi.

Pensavo che il discorso fosse chiuso qui… E invece l’assistente ci ha messo di fronte a tutta un’altra serie di scelte, alle quali non siamo riusciti a rispondere subito, con mio grande disappunto (pensavo di essermi preparata bene – ho l’animo da prima della classe!)

Purtroppo esistono alcune malattie che non possono essere diagnosticate alla nascita, ma che si manifestano più avanti con l’età, magari addirittura da adulti.

Classico esempio: le malattie psichiatriche.

“Accettereste un bambino che è nato da una madre malata, che so, di schizofrenia?”

E che cavolo, proprio una della malattie più gravi doveva prendere come esempio?

Sfortunatamente i medici non sono ancora riusciti a capire quanto queste malattie siano influenzate dalla genetica e quanto dall’ambiente in cui una persona vive e cresce.

Dopo essermi confrontata con la mia psicologa, però, ho scoperto che ci sono alcune malattie, e la schizofrenia è tra queste, che sono ad alta trasmissione genetica, e per le quali l’ambiente riveste un’importanza minima.

Durante il colloquio successivo abbiamo parlato a lungo della nostra paura di correre questo rischio… E l’assistente sociale per fortuna l’ha capito, e non credo che ci abbia considerato male per questo. Anzi. La sincerità paga (quasi sempre). Se adottassimo un bambino figlio di una donna schizofrenica, ansiosa come sono, passerei tutto il tempo ad osservare e analizzare ogni suo comportamento, per capire se anche lui manifesta dei sintomi di questa malattia… Questo non è auspicabile né per me, né per lui. E sarei costantemente ossessionata dal pensiero che, indipendentemente dall’amore che posso dargli, un giorno mio figlio potrebbe “impazzire”… Non riuscirei a sopportarlo.

Ci è stato anche chiesto se siamo disponibili ad adottare il figlio di una donna sieropositiva. Solitamente questi bambini risultano positivi al test per diverso tempo, magari anche un anno, ma di solito in seguito si negativizzano (non è alta la percentuale di trasmissione dell’HIV da madre a figlio). Di solito. Potrebbe anche essere che il bambino sia davvero malato.

Ho esitato molto davanti a questa scelta. Stavo quasi per dire che ero disponibile ad accettare il rischio, ma… Non sono solo io a decidere. E Marito non ne voleva sapere. Così abbiamo detto di no.

L’assistente sociale ci ha parlato anche dei bambini nati prematuramente, e dei rischi che ne conseguono. I bambini nati prima del tempo rischiano di avere delle malformazioni o delle malattie.

In questo caso ci siamo detti disponibili ad accettare il rischio, anche perché i parti prematuri si verificano spesso (nella maggior parte dei casi si tratta di donne che non si sono curate durante la gravidanza).

A parte le malattie, abbiamo anche parlato della disponibilità riguardo il “passato” del bambino. Sinceramente non credevo che ci fosse un’opzione a riguardo. Insomma, quando si adotta si da per scontato che il bambino venga da un passato difficile, no?

L’assistente ci ha chiesto se siamo disponibili ad adottare un bimbo che ha subito abusi sessuali (purtroppo a volte avvengono anche su bambini molto piccoli), con tutti i traumi che ne conseguono. Questo è considerato il caso più grave. Poi ci sono anche bambini che hanno patito la fame, che sono stati picchiati, che sono vissuti in un ambiente malsano sotto tutti i punti di vista…

Non avevo mai pensato di mettere dei “paletti” su questo, perciò ovviamente abbiamo detto che non c’è problema. Affronteremo tutte le difficoltà, tutti i traumi, tutti i ricordi dolorosi, insieme a lui.

A dire il vero tutte queste domande mi hanno lasciata spiazzata. Da un certo punto di vista ero grata di poter esprimere una “scelta”, per evitare di trovarmi in futuro a gestire una situazione che non sono in grado di affrontare, da un altro non mi piaceva l’idea di dover mettere tutti questi “paletti”. Insomma, stiamo adottando un bambino, non siamo mica dal macellaio a scegliere il pezzo di carne migliore…

L’assistente sociale ha compreso appieno le mie perplessità, ma ci ha anche fatto capire che è necessario riflettere su questi aspetti, in modo da essere abbinati al bambino per il quale siamo più adatti.

Io ho capito che è meglio essere sinceri subito… E’ da stupidi rispondere “sì” a tutto, per poi ritrovarsi a dover dire di no al giudice quando ti chiama per proporti un bambino sieropositivo, capendo di non avere la forza per crescerlo!

C’è anche un’altra cosa importante da capire, però…

Chi adotta deve comprendere che adozione significa accoglienza. Se un bambino viene tolto dalla sua famiglia d’origine significa che c’è un grave motivo. Maltrattamenti, abusi sessuali, povertà, sono all’ordine del giorno. Molte donne che rimangono incinta senza desiderarlo, ma decidono di non abortire (per motivi religiosi, pressioni dei genitori, ignoranza), si trascurano durante la gravidanza… Bevono, fumano, assumono droghe… E magari vengono picchiate!

Non si può pretendere di adottare un bambino bello, felice e sano. Non è così. Non può essere così. Ed è anche questo il “bello” dell’adozione. Restituire (o provare a restituire) la dignità, la felicità, ad un bambino che già quando si trovava nell’utero materno (il luogo più sicuro del mondo, in teoria) ha conosciuto solo dolore.

Ammetto che l’assistente sociale ci ha messo un po’ di paura, ma questa è una cosa buona, perché la paura ti spinge a riflettere, a prepararti, a capire. Ovviamente non possiamo essere pronti a tutte le situazioni, non possiamo sapere come sarà il bimbo che arriverà e cosa avrà patito, ma sappiamo che, qualsiasi sia il suo dolore, dovremo affrontarlo. E ci sentiamo pronti a guarirlo.

Oltre a metterci paura, però, devo dire che ci ha anche dato un po’ di speranza. Dalle parole dell’assistente sociale e della psicologa ho capito che scriveranno una bella relazione su di noi, è questo è fondamentale per fare sì che il giudice ci tenga in debita considerazione.

Secondo loro dovremmo farcela entro tre anni, quindi prima della scadenza della domanda. Come ho già detto, è facile essere chiamati per un abbinamento entro il primo anno dalla presentazione della richiesta, ovvero quando il colloquio con il giudice è ancora “fresco”, oppure verso la fine dei tre anni, quando le domande in scadenza vengono revisionate… Le solite cose all’italiana.

Io ho già deciso che ogni tanto farò un salto in tribunale a salutare il giudice per fare in modo che si ricordi di noi 🙂

E magari gli manderò anche qualche regalino a casa… Che so, una Ferrari, un buono per una vacanza alle Maldive, un collier di diamanti per la moglie… Un pensierino così, diciamo =P

A parte gli scherzi… Non ho idea di quanto dovremo aspettare, so solo che quello che arriverà sarà LUI… NOSTRO FIGLIO. Lui e soltanto lui. La felicità che aspettiamo da anni.