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La Diana sulla Luna

Possiedo la capacità, che in tante occasioni della vita mi ha salvato dalla follia, di riuscire a chiudere a chiave in un cassetto della memoria i ricordi più dolorosi.

E poi di scordarmi volontariamente del luogo in cui ho riposto la chiave, in modo che non possa riaprire mai più quel cassetto.

E poi ci sono ricordi che, semplicemente, sono così ingombranti da non riuscire a chiuderli da nessuna parte, e forse non vuoi neppure farlo. Perché, in fondo, quel dolore ti ricorda anche la felicità che l’ha preceduto.

Oggi, 8 novembre 2020, è passato un anno esatto da quando Diana se n’è andata… Sì, era “solo” un cane agli occhi del mondo, ma, nella mia vita, rappresentava molto di più.

Anche se non vorrei, ricordo alla perfezione ogni dettaglio di quella giornata terribile.

L’immagine che mi viene subito alla mente quando ripenso a quei momenti è il modo in cui ho spazzolato il pelo della mia cagnolona, dopo che il veterinario aveva eseguito l’eutanasia. Il suo spirito non c’era più, il suo corpo immobile, eppure io mi sono messa a spazzolarla, da sola, nello studio del veterinario avvolto da silenzio.

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Andrà tutto.

Ogni volta che nella vita mi sono trovata ad affrontare un periodo buio, mi sono sentita ripetere, da amici, conoscenti, addirittura da sconosciuti…
– Andrà tutto bene!
Non ho mai sopportato questa frase. Queste tre semplici parole, messe in questo ordine, sono in grado di provocarmi l’orticaria.
– Ma cosa cavolo ne puoi sapere, tu? – avrei voluto replicare, ogni santa volta.
Avrei preferito ricevere un consiglio sensato, parole di solidarietà, o un semplice abbraccio…
In questo periodo di emergenza, queste tre maledette parole sono diventate un mantra nazionale, un hashtag utilizzato in maniera maniacale ovunque, dai post sui social ai manifesti appesi ai balconi.
E queste tre parole, associate a quel fottuto arcobaleno che mi ritrovo in ogni dove, mi irritano ogni giorno di più.

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Mamma, sei felice?

Ultimamente mio figlio ha preso l’abitudine di pormi quotidianamente questa domanda. Mi trovo sempre in difficoltà a rispondergli.

Sono una persona che prova disagio persino quando incontra un vicino di casa, un conoscente per strada, e si sente chiedere: “Come stai?”

So che è una domanda retorica, detta a mo’ di saluto, posta senza nessun reale interesse verso la risposta dell’altro, eppure faccio sempre un’immensa fatica a rispondere “bene” (che è l’unica risposta socialmente accettata) e, quando lo faccio, non ho un tono molto convinto.
Sto bene? Non lo so. Come faccio a saperlo? Chi mi può dare questa certezza?

E, quando mio figlio mi chiede se sono felice, con quei suoi occhioni grandi che mi fissano e sembrano riuscire a vedermi dentro, io non so bene cosa dire.

Non so esattamente cosa significhi essere “felice”.

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Anno nuovo: nuova forza, nuovi obiettivi.

Oggi, 5 gennaio, è un giorno speciale, perché sarebbe l’undicesimo compleanno della mia Diana… Ma lei non è più qui con noi, non fisicamente, almeno.
Per me questa è una giornata molto intensa, piena di emozioni e di ricordi.

Il mio bambino sa che la sua sorella pelosa ora è sulla luna e, a furia di ripeterglielo, me ne sono convinta anche io. Cerco la luna ogni sera, e per me è impossibile non sorridere, mentre la guardo.
E rivolgere un pensiero a lei.

Ciò che mi consola è che presto tutti sapranno che sulla luna c’è una cagnolina che si chiama Diana… Perché il mio prossimo lavoro sarà dedicato a lei.

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Zerovirgolazero

Dove ero rimasta?
8 pt. Test negativo.
Sì, forse era un po’ presto… Ma dentro di me sapevo che quel negativo era terribilmente, dolorosamente reale.
10 pt, rifaccio il test. Ancora negativo.
Ieri mattina, 11 pt, vado a fare le analisi delle beta hcg.
Sottolineo il fatto che sono dovuta rimanere in coda per almeno venti minuti dietro ad una mamma con tre pargoli al seguito. Il più piccolo dei tre, due anni circa, ogni tanto mi guardava e mi sorrideva timidamente…
Mazzata al cuore.
Come al solito la segretaria mi chiede se ho già fatto un test di gravidanza.
“Sì, era negativo.”
“Ha un ritardo, quindi?”
No. Ho fatto la fecondazione assistita. Devo vedere se è successo qualcosa.”
Sempre la stessa conversazione. Ecchepalle.

Anche il medico che mi fa il prelievo è sempre lo stesso. Un dottore simpatico e cordiale che, dall’accento e dal nome che ho letto sul suo tesserino, probabilmente è originario dell’Est Europa. Anche lui mi fa le stesse domande… Io gli do le stesse risposte. Ecchepalle 2.
Il medico è decisamente più gradevole della segretaria, e cerca di infondermi un po’ di fiducia. Non è che ci riesca molto, però… Mi dice che ha degli amici che hanno provato con la PMA otto o nove volte.
“E’ una specie di roulette russa!” mi dice, sorridendo.
Tentativo di conforto fallito miseramente.
Non me la prendo, però. Anzi, è stato carino. Almeno non ha espresso giudizi e non mi ha detto la solita frase ormai trita e ritrita che mi fa sempre ribollire il sangue nelle vene: “Ma tanto sei gggiovane!”

Dopo il prelievo mi sono incontrata con due amiche che non vedevo da tempo. Ero stata proprio io a organizzare l’uscita, perché, come vi ho detto, sto cercando di riagganciare qualche rapporto umano.
Avrei voluto disdire l’appuntamento, dato che avevo l’umore a terra. Poi però mi sono detta che non posso continuare a fare l’eremita, ad isolarmi nel mio dolore. Forse uscire mi avrebbe fatto bene. E così è stato.

Ero ancora seduta al bar con loro quando è arrivato il momento di chiamare il laboratorio per sapere il risultato delle analisi.

“Buongiorno, sono venuta stamattina a fare le analisi delle beta hcg… Mi può dire il risultato, per favore?”
“Sì, attenda un momento…”
Rumore di fogli, voci in sottofondo… Passano i secondi, il mio cuore si ferma per un istante…
“Il risultato è zerovirgolazero, signora.”
Rido.
“Grazie. Arrivederci.”
E vaffanculo.

Zerovirgolazero? Non bastava dire zero, oppure negativo?
Insomma, la segretaria doveva per forza essere tanto crudele? Il risultato me lo aspettavo. La cattiveria, quella mi ha spiazzato.

Ho fallito di nuovo. Ieri era l’11 pt, direi che il risultato è definitivo.

Sto continuando con le terapie post transfer, non so neppure io perché. Martedì, 14 pt, rifarò il test di gravidanza, tanto per buttare via altri 18 euro. Ma il centro PMA vuole così, e finché sono seguita da questi medici devo fare come dicono. Martedì li chiamerò per comunicare il fallimento, e poi spero di non sentirli mai più.

Da domani io e Marito saremo impegnati a fare tutte le analisi per ricominciare da capo con la PMA alla clinica di Bologna. Come vi ho già detto spero di poter cominciare la stimolazione con il ciclo di fine marzo/inizio aprile, perciò dobbiamo muoverci.

Come sempre accade dopo un fallimento, io e Marito ci siamo messi a parlare del futuro. Di quello che possiamo fare. Di quello che vogliamo fare.

Siamo assolutamente convinti che la clinica di Bologna sia più affidabile e seria, e siamo fiduciosi nella prossima PMA.
Però… Abbiamo ricominciato a parlare di adozione.

Dopo il corso informativo-formativo fatto tra settembre e ottobre avevamo deciso di accantonare l’adozione, almeno per il momento. Gli assistenti sociali ci avevano trasmesso tanta paura e insicurezza. Negli ultimi mesi siamo stati solo e soltanto concentrati sulla PMA.
O, almeno, così credevo. In realtà l’altra sera, mentre io e Marito parlavamo del futuro, mi sono resa conto che l’idea dell’adozione non ci ha mai abbandonato in questo ultimo periodo. Anche se inconsciamente, questo pensiero ha continuato a maturare dentro di noi…
Abbiamo avuto il tempo di confrontarci con le paure, di elaborare tutte le informazioni che ci sono state date… Fino a pochi giorni fa dicevamo che dovevamo assolutamente riuscire ad avere un figlio “naturale”… E ora abbiamo deciso di proseguire con l’adozione.

Questo pensiero mi rende molto felice. Mi rendo conto di aver ritrovato l’entusiasmo che avevo prima del corso. Durante gli incontri ci hanno spaventato, sì, ma probabilmente solo per vedere quali coppie erano veramente determinate a continuare… E noi lo siamo!
Avere un figlio bio e uno adottato è diverso, questo ormai l’abbiamo capito.
Però, alla fine… Mi sono resa conto che non me ne frega niente se nostro figlio non avrà gli occhi di Marito o il mio sorriso…
Anche se quel bimbo avrà la pelle di un colore diverso dalla nostra, se verrà da una terra lontana, non importa.
Lui sarà nostro figlio.
PMA o adozione. Seguiremo entrambe le strade. Sarà il destino, o Dio, a decidere come e quando arriverà nostro figlio.

Sarà difficile… Doppiamente difficile, visto che solitamente le coppie affrontano un solo cammino alla volta… Ma noi siamo fatti così. Ci piace imbarcarci in imprese impossibili.

Forse l’ho già detto, ma lo ripeto… Il cammino dell’adozione, benché lungo e complicato, mi infonde più sicurezza e serenità rispetto alla PMA.
Con l’adozione ogni passo, i colloqui, la presentazione della domanda al Tribunale, la scelta dell’Ente, è un passo in più verso nostro figlio…
Con la PMA ogni tentativo è a se stante, e se si rivela un fallimento non è un passo avanti né indietro, è come rimanere immobili

Abbiamo deciso di provare ancora con la PMA semplicemente perché sentiamo di doverlo a noi stessi. Il centro che ci ha seguiti in quest’ultimo anno si è rivelato inaffidabile e non professionale, è quasi come se non avessimo neppure fatto questi tre tentativi.

Perciò… Proviamo ancora. Ma non importa se non ce la faremo.
Nostro figlio è da qualche parte che ci aspetta… Forse è ancora un piccolo angelo in Cielo, o forse proprio ora sta piangendo in un istituto, abbandonato da chi gli ha dato la vita, aspettando qualcuno, aspettando NOI, che possiamo ridargli la gioia. Non importa, davvero…

Come ormai avrete capito io amo tanto fantasticare quanto “fare”…
Ho già contattato i servizi sociali per comunicare la nostra decisione di proseguire con le pratiche. Ho già presentato la domanda, e mi hanno detto che probabilmente dopo Pasqua faremo il primo colloquio con gli assistenti.
Lunedì prossimo, 4 marzo, faremo la visita con il medico legale, che da quello che ho capito è una cavolata. Non ci hanno chiesto di fare esami particolari, ci hanno solamente domandato di portare analisi del sangue recenti, se le abbiamo (SE le abbiamo? Ho una carpetta da 5 kg piena di analisi…). Probabilmente parleremo qualche minuto con il medico legale, che si accerterà soltanto della nostra sanità mentale e ci chiederà di firmare un’autocertificazione dove dichiariamo di non avere malattie gravi.

Nonostante certe brutte esperienze che si leggono su internet, devo dire che, finora, per quanto riguarda l’adozione, abbiamo avuto sempre a che fare con persone gentili e disponibili. La segretaria del Centro per le Famiglie mi ha inviato addirittura i documenti necessari via e-mail mentre parlavamo al telefono, e la dottoressa dell’ASL si è persino scusata perché non poteva darmi l’appuntamento con il medico legale per la prossima settimana, ma per quella dopo ancora…! Con i tempi burocratici dell’adozione, una settimana in più o in meno non fa di certo la differenza. Ehi, persino io riesco ad accettarlo!

Insomma… Da una parte sento di essere allo stesso punto in cui mi trovavo un anno fa… D’altra parte, però, riflettendoci bene, sento di essere molto cresciuta, di aver capito tante cose in quest’ultimo anno.

Ogni giorno mi sento sempre più “mamma”… Anche se ancora non possiamo prevedere né immaginare come, da dove e quando arriverà nostro figlio.
Spero solo che tutta questa attesa, questo dolore, questa frustrazione, mi aiuterà ad essere una donna e una madre migliore.

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Chiamatemi Grinch

Grinch

Ho un groviglio di pensieri nella testa. E, mi dispiace, ma temo che sarete voi a doverveli sorbire.
Oggi Marito è via per lavoro, e tornerà domani sera. Perciò non ho nessun altro che possa sopportare i miei deliri. Vi ringrazio anticipatamente per la vostra disponibilità.

Dunque. Ho passato gli ultimi giorni a piangere tre, quattro volte al giorno. In macchina, in ufficio, a letto, in qualsiasi momento o luogo o situazione. Ho cercato in tutti i modi di stare serena, di concentrarmi su tutte le belle parole da cui sono stata bombardata in questi giorni, ma la verità è che, se stai male, niente e nessuno può aiutarti. Il dolore deve fare il suo corso, proprio come una malattia, non c’è niente da fare. Se non sperare che non si tratti di una malattia incurabile.

Per diversi giorni ho dormito malissimo. Sono andata in farmacia per comprare un tranquillante. Un tempo ne facevo un grande (ab)uso. La farmacista non ha voluto darmelo senza ricetta, nonostante in questo ultimo anno abbia speso da lei un patrimonio tra test di ovulazione, test di gravidanza, acido folico, progesterone e chi più ne ha più ne metta. Ma io non avevo tempo per andare dal dottore a farmi fare la ricetta. Volevo dormire, e subito, cazzo! Così ho rinunciato. Solo pochi giorni fa, mettendo a posto la cucina, ho ritrovato un flacone semi nuovo di En che Marito mi aveva nascosto mesi fa (senza poi ricordarsi dove l’aveva messo) per curare la mia dipendenza. Ma non l’ho preso. Ormai non mi serviva più.

Ho smesso di piangere. Per ora, almeno. Adesso il mio bel micione riposa nel nostro giardino. Marito gli ha fatto una bellissima lapide.

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Oggi ho riguardato alcune sue foto, ma l’ho fatto con il sorriso. Era veramente un bel gatto, un amico dolcissimo, un fratello. Ha avuto una bella vita. Ci ha donato tanto, e anche noi gli abbiamo dato serenità. Quei bastardi che l’hanno abbandonato non sanno cosa si sono persi in tutti questi anni. Marito dice che ora ci proteggerà da lassù, insieme alla mia bisnonna (morta quando avevo 15 anni), insieme a sua nonna, insieme a Finny e a Cico (il cane dei miei suoceri e il gatto dei miei nonni). E che ci aiuteranno a realizzare il nostro sogno e proteggeranno i nostri bimbi. E’ un bel pensiero. Non possiamo fare altro che cercare di convincerci di questo.

Sono al 44° (QUARANTAQUATTRESIMO) giorno del ciclo e delle Malefiche neppure l’ombra. Ho fatto un altro test di gravidanza, così, tanto per passare il tempo. Quando è apparso il risultato negativo mi sono data dell’idiota da sola per aver sputtanato altri soldi. La mia faccia è un tripudio di brufoli, non faccio altro che mangiare cioccolata e sono lunatica più del solito. Ci siamo quasi, direi. Vi muovete o no? Non vedo l’ora di cominciare a prendere l’estradiolo e poter finalmente programmare il giorno del transfer. Ho bisogno di qualcosa in cui sperare.

Tra qualche giorno è Natale, e a dire il vero stento a crederlo. Negli ultimi anni è nata in me un’avversione verso questa festività. Cibo, cibo, cibo… Regali inutili… Auguri da persone che non senti mai… Ipocrisia… Lusso… Addobbi kitsch… Tutto questo, sinceramente, non mi interessa. Non ho neppure una famiglia unita con cui festeggiarlo, il Natale. Sono credente ma non praticante, dato che la Chiesa mi disgusta sempre di più (oh, gli omosessuali sono una minaccia alla pace, ricordatevelo!).
L’anno scorso ho passato la mattina di Natale a fare volontariato all’Enpa (io sono di turno alla domenica mattina e il 25 dicembre l’anno scorso cadeva proprio di domenica). E ne sono stata contenta, almeno ho dato un significato a questa festa. Quest’anno mi piacerebbe fare qualcosa di simile. Ho trovato un’associazione che alla sera va in giro per la città a distribuire cibo e coperte ai senzatetto. Vorrei contattarli per chiedere se posso dare una mano la sera di Natale. E, chissà, potrebbe anche nascere una collaborazione costante e duratura. Che ci posso fare. Io ho un debole per i reietti, da sempre. Animali, anziani, carcerati, senzatetto, immigrati. Gli ultimi tra gli ultimi. Quelli a cui nessuno pensa, sono quelli a cui io penso di più.
Sto cercando di convincere anche Marito a partecipare, ma non sembra molto convinto. Lui vorrebbe andare in ospedale, nel reparto di oncologia, a distribuire regali ai bambini malati di tumore. Un’idea bellissima, ma difficilmente realizzabile… Marito non conosce il mondo del volontariato, non sa che non ci si può improvvisare in questo modo! Dubito altamente che le infermiere ci farebbero entrare, senza un’associazione alle spalle, senza neppure sapere chi siamo! Per queste cose bisogna essere preparati. Mica puoi andare da un bambino, magari malato terminale, a dargli qualche regalo e a dirgli di pregare e avere speranza! Rischi di fare più danni che altro!
Ma Marito è così, è un sognatore. Meno male che ci sono io che, in quanto donna, sono un po’ più lungimirante!!

Non mi piace il Natale, non mi piace proprio. Si dice che a Natale siano tutti più buoni, ma in realtà a me sembrano solo tutti più ipocriti.

Oggi, a metà mattina, sono uscita a fumarmi una sigaretta. Da quando la mia “compagna di fumo”, interinale, è stata lasciata a casa, la pausa del mattino la trascorro da sola. Giusto il tempo di fumare e torno in ufficio. Tempo: circa 4 minuti (il capo ringrazia). La cosa non mi dispiace, sinceramente. Il pensiero di unirmi al gregge dei gggiovani che si siedono sulla scalinata davanti all’entrata dell’azienda (nonostante sia proibito) e ridono sguaiatamente come dei liceali non mi intriga per niente.
Oggi, mentre sfumacchiavo allegramente (?), ho incontrato E., una collega, che però lavora in un altro ufficio. Io e lei siamo state assunte più o meno nello stesso periodo. Non ricordo quanti anni abbia, comunque una trentina o forse meno. Appena è stata assunta è rimasta incinta. Ora sua figlia ha all’incirca due anni. Si è fermata un minuto a parlare con me. Le ho chiesto come stava la bimba.
Lei mi ha detto, euforica: “Tra poco ne arriva un’altra!”
Credo di essere sbiancata. E di aver distrutto la sigaretta che tenevo tra le dita.
“Eh sì, sono di nuovo incinta!” ha esclamato, aprendo il piumino (avrei voluto gridare “ti prego non farlo!!”) per mostrarmi il pancione.
Sono rimasta impietrita. Mi sono scostata di qualche passo da lei con la scusa che non volevo che respirasse il mio fumo. In realtà sarei voluta scappare via, lontano da lei e dal suo pancione.
Ho impiegato diversi istanti per ricompormi e farle le mie congratulazioni.
“Eh, però,” ha detto lei, un po’ scocciata, “aspetto un’altra femmina! Io avrei voluto un maschietto!”
“Beh, pensa a chi non può neppure avere figli…” ho replicato io, acidamente.
“Eh sì sì, è vero,” ha detto lei, ma non credo che abbia capito quello che intendevo dire.
Ovvero che aveva proprio davanti a sé una donna che non può averli.

Ora vado a scaldarmi una pizza surgelata e a finire di scolarmi la mia bella bottiglia di Crémant d’Alsace. Che serata, gente.

Al prossimo sproloquio.

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Tra sogno e realtà

Stanotte ho sognato di essere incinta.

Era tutto talmente reale che quando ho aperto gli occhi, mentre la mia mente era ancora in sospeso tra realtà e fantasia, ho allungato le mani per cercare quel test di gravidanza che stringevo – incredula – nel sogno. L’emozione è durata solo per pochi istanti, ma non ho parole per esprimere la delusione e la tristezza che mi hanno pervasa non appena mi sono resa conto che si trattava, appunto, soltanto di una dolcissima fantasia.

Ricordo perfettamente l’emozione che ho provato mentre tenevo in mano quel test di gravidanza positivo. Non riuscivo a crederci. Volevo urlare dalla gioia ma mi trattenevo, perché avevo paura che fosse un’illusione… Mi sono svegliata mentre nel sogno, in preda all’ansia e all’eccitazione, uscivo di casa per andare al laboratorio a fare le analisi del sangue.

Quando sono tornata completamente alla realtà, mi sono sentita molto malinconica. E’ stata una giornata amara. Una di quelle giornate in cui ti impegni con tutte le tue forze per sorridere, e a volte riesci a farlo con convinzione, finché non senti una voce dentro di te che ti dice di smetterla, che ti sprona ad urlare, a mandare tutto a fanculo…

Soprattutto quando, mentre cerchi di concentrarti sul lavoro per dimenticare tutto il resto, ricevi un sms da tua madre, appena rientrata dalle Mauritius, che dice così: “Per me è stato un anno orribile: i soldi, i viaggi, la bellezza e la magrezza aiutano, ma non danno la felicità”

…E ti incazzi pensando che una donna del genere abbia un figlia come ME. Un po’ matta, ribelle forse, ma una BELLA figlia, che sa dare tanto amore, un amore che nessuno vuole, neppure la mia stessa madre! Mentre io, che ho il cuore saturo di affetto che attendo di poter donare, rimango qui, da sola, ad immaginare un figlio che non so se arriverà.

Stamattina, quando sono salita in macchina per andare al lavoro, ho acceso la radio e sentito questa canzone.

Sapevo che Laura Pausini aveva dedicato una canzone alla maternità e, nonostante fossi curiosa di sentirla, avevo cercato in tutti i modi di evitarla. Sapevo che mi sarei commossa, che avrei pianto… Ma quando ho sentito la presentazione del deejay non ho avuto il coraggio di cambiare stazione. E così, l’ho ascoltata. Mi sono persino fermata nel parcheggio per sentirne la fine, nonostante fossi già in ritardo per andare a lavorare.
E sì, mi sono emozionata. E ho pianto un po’. In quel momento mi sarebbe piaciuto avere una mamma da chiamare. O un’amica. Ma non avevo nessuno. Se avessi telefonato a Marito, lui non avrebbe capito. Certe cose, certe emozioni, solo le donne le possono comprendere. E così mi sono ricomposta, mi sono asciugata le lacrime, sono scesa dalla macchina e mi sono diretta verso l’ufficio, mentre dentro la mia mente continuavano a riecheggiare queste parole:

 

Avrai gli occhi di tuo padre
e la sua malinconia
il silenzio senza tempo che pervade
al tramonto la marea

ti aspetterò
e prima o poi
arriverai senza nemmeno far rumore

Io sono perennemente alla ricerca di segnali lungo il mio cammino.
Cerco di dare un’interpretazione, di trovare un messaggio, in ogni cosa che mi accade. Un sogno, una canzone ascoltata per caso, un incontro inaspettato, un film su cui capito facendo zapping, una nuvola dalla forma particolare… Sono sempre alla ricerca di qualcosa. Di qualcosa che mi faccia capire cosa fare, o che soltanto mi inciti a sperare, a continuare a combattere, oppure che mi convinca a desistere. Nonostante tutto, anche se la mia parte più razionale e amareggiata crede solo nel caos, in un angolo del cuore continuo a credere nell’esistenza di un’entità superiore – Dio, un angelo custode – che influenza le nostre vite, che ci consiglia, che ci dice cosa fare.

Non so se per via del sogno che ho fatto stanotte o della canzone ascoltata per caso, ma… Oggi mi sentivo veramente una mamma. Sì, mi sentivo come se la fossi già. Ogni tanto mi accarezzavo la pancia, per poi ritrarla e sorridere tra me e me, un po’ imbarazzata, ricordandomi che il mio ventre è vuoto e freddo come l’inverno che sta arrivando.

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Sogni infranti

Come previsto, sabato io e Marito siamo tornati al centro PMA per discutere il prossimo tentativo di ICSI. Praticamente sono stata io a dettare alla dottoressa dosi e giorni delle iniezioni, tanto sono diventata esperta! Per fortuna non ci ha fatto pagare per la consulenza (e meno male, con tutti i soldi che le dovremo dare alla fine!), e Marito mi ha detto che avremmo dovuto chiederle noi dei soldi, dato che ho fatto tutto io…  😉

Visto che le Malefiche mi sono arrivate, sgradite come sempre, il sei settembre, dovrò iniziare la terapia ormonale il ventisei, ovvero il ventunesimo giorno del ciclo. Come l’altra volta farò la soppressione con un’unica iniezione di Enantone, poi dovrò attendere la nuova visita delle Malefiche e il terzo giorno del ciclo successivo inizierò la stimolazione con il Gonal. Questa volta assumerò dosi maggiori per tentare di produrre qualche ovocita in più, dato che l’altra volta non è andata molto bene (sei follicoli di cui tre vuoti).

Ho parlato alla dottoressa della prostatite di Marito. Ero convinta che l’avrebbe considerata come una buona notizia, invece mi ha detto che, anche dopo la cura antibiotica, sarà impossibile per noi provare ad ottenere una gravidanza naturale. Magari gli spermini miglioreranno come motilità, ma come numero e morfologia assolutamente no. La notizia non mi ha gettato nel panico più di tanto. E’ vero, ci speravo, come vi ho detto nell’ultimo post, ma in fondo al cuore sapevo che era solo una remota possibilità… E quindi, le strade tornano ad essere due, proprio come pensavo fino a pochi giorni fa. Adozione o PMA. E, ripeto, non mi importa quale cammino ci porterà al traguardo. Basta arrivarci, a ‘sto benedetto traguardo!

Tutta la mia vita ormai ruota intorno a questo. Ad un figlio. La mia vita è in stand by. E io voglio che sia così. Non voglio prendermi una pausa di riflessione, come molte altre coppie fanno. Forse mi farebbe bene, ma non voglio. Non voglio prendermi del tempo per me, non voglio che io e Marito sperperiamo soldi in viaggi e ristoranti per cercare di distrarci da qualcosa che, anche impegnandomi con tutte le mie forze, anche godendomi la vita come mai prima, non potrei mai dimenticare: io voglio un figlio. Di tutto il resto non mi importa. La mia vita riprenderà quando lui sarà qui con me. E sarà una bella vita. Sarà la vita che ho sempre voluto.

“Sogni infranti” è il titolo di questo post. Ma non mi riferisco al fatto di aver capito (di nuovo) che diventare mamma normalmente (brutta parola…) è impossibile per noi.

Quello che state per leggere l’ho scritto qualche giorno fa. L’ho scritto di getto, rabbiosamente, mentre piangevo. Ho esitato prima di pubblicarlo sul blog. Un po’ mi vergognavo. Sono pensieri molto intimi. E temevo anche che qualcuno mi potesse accusare di vittimismo, di voler essere compatita… Non è così. E se alla fine ho deciso di pubblicare le righe che state per leggere è perché non voglio più avere paura. E perché voglio liberarmi, e non ho molte persone nel mondo “reale” con cui farlo. E anche per farvi capire che non dovete dare nulla, ma proprio nulla, per scontato. Soprattutto l’amore. E poi, in fondo, tra i lettori di questo blog solo un paio sanno veramente chi sia Eva. Per gli altri sono solo un’anonima blogger come tante altre. Quindi, chi se ne frega se mi giudicherete male.

Famiglia. Cosa significa questa parola per voi? Per me la famiglia è il morbido e caldo materasso che ti accoglie e ti impedisce di ferirti ogni volta che la vita cerca di farti cadere a terra. Gli amori e gli amici se ne vanno, ma la famiglia resta. La famiglia c’è sempre. La famiglia è una certezza. Questa è la famiglia che io e Marito vogliamo essere per il nostro bambino. Questa è la famiglia che ho sempre sognato, e che non ho mai avuto. Sono caduta molte volte. E raramente ho trovato qualcuno ad accogliermi tra le sue braccia per sorreggermi. Sono sempre finita con il culo per terra. Quel morbido materasso che la maggior parte delle persone che conosco da per scontato io non l’ho mai avuto. Non ho mai vissuto, non ho mai sofferto con la certezza di avere qualcuno pronto a tendermi la mano. Anzi. Tante, troppe volte sono stata io a tendere la mano, a dare un aiuto a quelle persone che mi avrebbero dovuto crescere con amore, e che invece hanno lasciato che crescessi priva di qualsiasi fiducia negli altri e in me stessa.

Mia madre non sta bene. Da tanto, troppo tempo. Ma la sua malattia non è visibile, non può essere diagnosticata tramite un’ecografia o una tac, non provoca dolori fisici, non presenta tracce sul corpo. Tutti hanno sempre fatto finta che non ci fosse alcun problema. Tutti dicono che mia madre è semplicemente un tipo “particolare”. Nessuno osa dire la verità. La malattia di mia madre ha condizionato tutta la mia vita. Le sue crisi isteriche mi hanno fatto crescere nella paura, la sua morbosa gelosia verso di me e mio padre mi hanno impedito di frequentare la famiglia, la sua incapacità di provare affetto per qualcuno all’infuori di se stessa mi ha fatto sempre sentire sola. Mio padre, succube della moglie, ha sempre piegato la testa e chiuso gli occhi davanti ai problemi di mia madre. Ha cercato di vivere la sua vita senza lasciarsi condizionare dalle stranezze della moglie. E se l’è sempre presa con me per qualsiasi cosa. Ogni cosa era, ed è, colpa mia. Non di mia madre, non della sua malattia che non riese ad ammettere. NO. Mia.

Da quando avevo tredici anni o giù di lì io e i miei genitori abbiamo smesso di mangiare a tavola insieme. Alla sera ognuno mangiava ad orari diversi. Io a volte mi preparavo qualcosa che poi mi mangiavo nella mia camera, da sola. Ho passato l’adolescenza chiusa nella mia camera. La maggior parte delle volte, in realtà, saltavo la cena. Nessuno si curava di questo. Pensavano che volessi dimagrire. Pensavano che me ne stessi sempre chiusa in camera perché ero un’adolescente tormentata. Con il digiuno, il silenzio e la solitudine io volevo farmi sentire. Ma loro non hanno mai sentito niente.

Quando sono andata a vivere da sola credevo che finalmente mi sarei liberata dell’influenza negativa dei miei genitori sulla mia vita. Mi sbagliavo. Nonostante tutto, loro sono sempre la mia mamma e il mio papà, e ho mantenuto i rapporti con loro. E anche se non viviamo più insieme in questi anni sono sempre riusciti a trascinarmi nel loro vortice di rabbia e pazzia, mentre io, anche impegnandomi con tutta me stessa, non sono stata in grado di trasformarli nei genitori che avrei voluto.

I miei genitori non sono voluti venire al mio matrimonio. Credevo che dopo un affronto del genere non sarei più riuscita a parlare con loro, e invece ho continuato a frequentarli, anche se raramente. Perché sono sempre la mia mamma e il mio papà. E non posso averne altri. Ma ora ho deciso che posso fare a meno di loro. Devo fare a meno di loro, se voglio sopravvivere.

Un paio di giorni fa sono andata a trovare mia madre. Non ci vedevamo da mesi. Ultimamente ci siamo sentite soltanto qualche volta per telefono. Ogni volta la conversazione è finita tra urla e insulti. Mia madre non sopporta il fatto che io frequenti i miei nonni paterni e mia zia, che lei odia, non ho ancora capito per quale motivo. In realtà non è gelosa di me. Non le importa niente di sua figlia. Ma detesta il fatto che altri membri della famiglia ricevano più attenzioni di lei. Forse dovrebbe chiedersi perché le cose vanno così…

In tutti i modi, come dicevo, sono andata a trovarla. Le prime due cose mi ha detto sono state “Hai visto come sono magra?” e “Lo sai che Francesca, la tua compagna di scuola materna, ha un figlio di due anni?”

Bell’inizio.

Poi mi ha parlato dei litigi con mio padre, del fatto che si è vendicato di lui perché non gliel’ha data per sei mesi.

Lei: “Ah ah! Non gliel’ho data per sei mesi!”
Io: “Non sono termini appropriati per parlare con tua figlia.”
Lei: “Eh, va beh, allora dirò che non abbiamo fatto l’amore per sei mesi… Tanto è uguale a dire che non abbiamo scopato!”
Io: “Puoi usare qualsiasi termine, ma la cosa non mi interessa. Non credo che dovresti parlare di questo con tua figlia.”

I discorsi di mia madre non seguono un filo logico. Dopo pochi istanti ha cominciato ad urlarmi per essere andata un pomeriggio sul fiume con Marito,  mio padre, mia nonna e mia zia.
“Hai fatto vedere a tuo marito tua zia in bikini, ma non gli hai fatto vedere le mie foto su facebook!”
Ho fatto vedere a mio marito mia zia in bikini?? Mia zia era sul fiume a nuotare e prendere il sole come tutte le altre persone presenti, era ovvio che fosse in costume! Cosa gliene può fregare a mio marito di guardarla?
“Le tue foto su facebook sono imbarazzanti. Sembri una pornostar. Marito le ha viste. E anche due nostri amici le hanno accidentalmente viste. Si sono vergognati per me.”
Lei ha riso. “Non è vero! Sicuramente hanno detto che sono una bella donna! Perché è così!”
“Si sono vergognati per me,” ho ripetuto. “Quelle foto sono penose.”
“E invece di certo hanno detto che sono una bella donna!”
Oooook.

A novembre i miei genitori andranno alle Mauritius. Mia madre mi ha chiesto se durante la loro assenza posso andare a casa loro a pulire e accudire i gatti, come ho fatto quest’estate. Le ho detto che tra poco dovrò essere operata, e non so se potrò farlo. Non so perché l’ho detto. I miei genitori non sanno nulla dei problemi miei e di Marito. Non sanno della fecondazione assistita. Non conoscono l’inferno che stiamo vivendo. Credono che i loro problemi siano i più gravi del mondo. I litigi da adolescenti, i profili su facebook, le ripicche infantili… Pensavo che non avrebbero mai potuto capire quello che io e Marito stiamo passando, pensavo che non sarebbero stati di alcun aiuto. Eppure in fondo al cuore ho sempre desiderato confessare loro tutto quanto. Continuavo a dirmi che forse questa volta sarebbero riusciti a capire, che davanti ad una realtà tanto cruda e dolorosa sarebbero stati, per la prima volta, il materasso caldo e morbido che non mi hai mai sostenuto…

Quando le ho detto che dovrò subire un’operazione, mia madre ha voluto sapere a tutti i costi di cosa si trattasse. Io ho esitato. La sua agitazione mi metteva ansia. Poi, urlando, mi ha chiesto se i miei nonni e mio padre sapessero già tutto. Non avrebbe potuto sopportare un simile affronto.
“Se l’hanno saputo prima di me ti ammazzo!”
Io le ho risposto di no, che nessuno sapeva niente, ma lei non mi ha creduto e ha alzato la cornetta per chiamare mio padre e chiederglielo. Io l’ho fermata, a fatica, l’ho pregata di non farlo, dicendole che si tratta di una questione molto delicata.

Ha continuato a chiedermi spiegazioni, a chiedermi che cos’ho. Ad un certo punto mi sono lasciata andare e ho detto tutto.
“Abbiamo scoperto di non poter avere figli. E quindi abbiamo fatto la fecondazione assistita,” ho detto, laconicamente, senza lasciar trasparire alcuna emozione, come faccio sempre quando racconto a qualcuno del nostro dramma. Solo chi mi conosce realmente capisce quello che si cela dietro alla mia voce ferma e ai miei occhi impassibili. E mia madre non mi conosce realmente.
“Ah. Ho letto qualcosa, ma non so bene come funziona. Cos’hai dovuto fare?”
Ha parlato con tono neutrale, anzi, quasi allegro, come se non stessimo parlando della prova più grande che ho dovuto affrontare nella vita, come se mi stesse chiedendo, che ne so, da che estetista vado a farmi fare la ceretta…
Avevo appena cominciato a spiegare in cosa consiste la PMA, quando mia madre mi ha interrotto di nuovo per chiedermi ancora se fossi sicura di non aver detto niente a mia nonna. “Devi stare attenta, non dire niente a quella donna, è una vipera, una stronza!”
Ha continuato ad insultare mia nonna per diversi minuti. Mi guardava, ma i suoi occhi vuoti non mi vedevano realmente. Il suo sguardo è sempre stato spaesato, allucinato, perso. Lei non è mai realmente presente. Vive in un altro mondo. Un mondo che solo lei capisce. Io sono in un altro universo. Un universo dove lei non vuole entrare, dove non le interessa entrare.
A quel punto sono scoppiata. “Mamma, ma mi stai ascoltando? Capisci quello che ti sto dicendo?”

Le ho fatto notare che, ogni volta che le parlo di qualcosa di importante, lei non si cura di me, non mi ascolta, non le interessa ascoltarmi, ma coglie il pretesto (o se lo inventa) per cominciare a parlare di mia nonna e a insultarla, proprio come una pazza. Proprio com’è accaduto quella volta che, mettendo da parte tutto il mio orgoglio, le ho mostrato (senza che mi fosse neppure chiesto, eh) l’album del matrimonio, dopo che né lei né mio padre erano venuti alla cerimonia. Anche in quell’occasione non ha prestato alcuna attenzione a me, sua figlia. Ricordo benissimo la foga con cui sfogliava le pagine. Non ha guardato una sola foto che ritraeva me o mio marito. Si soffermava soltanto su quelle dove compariva mia nonna, per criticarla, e insultarla, e sputare veleno. Se qualcuno le chiedesse com’era l’abito di sua figlia o il colore dei fiori in Comune, lei non saprebbe rispondere, ma ricorderebbe perfettamente cosa indossava mia nonna o il modo in cui era seduta.

“Hai ragione,” ha detto, “ma tua nonna è veramente una puttana! Ed è invidiosa di me perché sono una bella donna! Non sono belle le mie foto su facebook?”
“Sono imbarazzanti.”
“Ah, allora dillo che sei arrabbiata con me per quelle foto! Ma non è colpa mia se sono una bella donna…”

A questo punto me ne sono andata, urlando, arrabbiata con lei ma soprattutto con me stessa per aver ingenuamente creduto che per una volta mia madre fosse in grado di ascoltarmi. Mentre me ne andavo lei continuava ad inveire contro mia nonna. Non mi ha fermata, non mi ha domandato perdono.

Da quel giorno mia mamma si è fatta sentire soltanto tramite alcuni sms. Ma non mi ha chiesto scusa, non mi ha chiesto se potevamo riprendere il discorso, non mi ha chiesto come sto. Mi ha solamente scritto che è stanca di essere esclusa da tutto e di non esistere per nessuno.

Quando ho raccontato l’accaduto alla psicologa, mi ha consigliato, per il mio bene, di stare lontano da mia madre e di non arrabbiarmi così tanto, ma di considerare che è una donna malata che vive in un suo mondo immaginario. Non è in grado di comprendere la realtà, né di capire che il suo comportamento non è normale.

Mamma. Sono tua figlia. Te ne rendi conto? Non posso avere figli. E un figlio è tutto quello che desidero dalla vita. Lo sapevi, questo? No. Non lo sai. Non me l’hai mai chiesto. Non ti è mai interessato scoprirlo. Non te ne frega niente di sapere quello che ho passato. Non mi hai neppure lasciato finire di parlare. Non sai che mi sono dovuta imbottire di ormoni, non sai che ho pianto durante il pick up, non sai che gioia ho provato sentendo quei due puntini luminosi dentro di me, non sai nulla… Cazzo, non sai neppure se sono incinta o meno!
Io ho avuto un aborto, mamma. Non so neppure se chiamarlo così, visto che la gravidanza è durata poco più di due giorni. Ma io mi sono sentita tanto felice quando pensavo di poter finalmente essere una mamma, e sono stata malissimo quando quella piccola vita, quella che sarebbe diventata una vita, mi ha lasciato.
Mamma, non mi interessano le tue scopate, i tuoi amanti, le tue foto su facebook, il tuo odio per la nonna. Volevo soltanto che mi ascoltassi. Ma non sei riuscita a farlo. So che non ci riesci perché sei malata, ma avrei voluto tanto, per una volta, una volta sola, avere una mamma.
Quando mio figlio o mia figlia verranno da me, sofferenti, io sarò per loro il caldo materasso che tu non sei mai stata.
Che strano il destino, vero, mamma? Tu che un figlio non lo volevi e non eri neppure in grado di crescerlo sei rimasta incinta senza volerlo, mentre io, che sogno di essere madre da sempre, devo faticare così tanto per realizzare il mio sogno.
Ti ho dato la possibilità per essere una mamma, per una volta. Ma tu non hai voluto approfittarne. Io sarò una madre decisamente migliore di te.
E, chissà, forse è anche grazie a tutto quello che mi hai fatto passare che negli anni ho capito chi voglio e chi non voglio essere. Forse dovrei ringraziarti, perché mi hai fatto scoprire cosa significa crescere con una persona incapace d’amarti. E i miei figli non scopriranno mai cosa si prova. I miei figli non diranno mai quello che io sto per dire: “Io non ho più una madre.”

Mi piacerebbe poterle dire tutto questo. Ma lei non capirebbe. Non capisce mai. Ed ora ho capito che non posso obbligarla a capire.

L’altro giorno, non so per quale motivo (forse a causa dello scombussolamento ormonale provocato dalle Malefiche) ho raccontato ai miei colleghi qualche anneddoto sulla mia famiglia. Ho detto loro che non mangiavamo mai insieme, e che ognuno si cucinava quello che voleva all’ora che voleva e mangiava da solo.

I miei colleghi non mi hanno creduto. Hanno riso di me. Mi hanno accusata di esagerare, perché secondo loro è impossibile che esistano famiglie del genere e che dei genitori si possano comportare in questo modo.

Tralasciando l’ignoranza dei miei colleghi (ci sono anche dei genitori che abusano sessualmente dei figli – ma non li leggono i giornali?), i loro commenti mi hanno fatto capire che le persone danno tutto per scontato.

I genitori amano i figli.

No, non è così. Non sempre. A volte li vorrebbero amare, ma non sono in grado di farlo.

I miei colleghi credono anche che avere un figlio sia una cosa normale, un qualcosa che tutti possono ottenere. E neanche questo è vero.

Non bisogna dare nulla per scontato. E i miei figli riceveranno tutto l’amore che ho da dare, tutto l’amore che non ho mai ricevuto, tutto l’amore che ho sempre desiderato.

L’obiettivo della mia vita è trasformare la rabbia in amore. Finora ci sono sempre riuscita, seppur a fatica. E anche la rabbia per dover lottare tanto per diventare madre alla fine si rivelerà qualcosa di buono. Dopo aver atteso tanto, mio figlio sarà il bambino più amato del mondo. E gli insegnerò a non dare nulla per scontato.

P.S. Un applauso a chi è riuscito ad arrivare alla fine di questo luuuungo post!

Pubblicato in: La mia storia

Ma almeno piove…

Non amo l’inverno. Così freddo, cupo, triste, sterile… C’era un tempo in cui amavo il cielo grigio e il gelo, perché riflettevano il mio stato d’animo. Ora, no. Ora adoro il sole, le giornate lunghe, i fiori che sbocciano, il caldo, persino l’afa. Forse perché il sole, in questo momento della mia vita, rispecchia di più quello che sento. Non tanto la serenità che ho ottenuto, ma soprattutto il mio desiderio di essere felice. Pienamente felice.

Ogni anno aspetto con trepidazione la primavera. Quest’anno non mi ero neppure accorta del suo arrivo. L’ho realizzato soltanto qualche settimana fa quando i primi giorni di tiepido sole hanno riempito i parchi di mamme e nonne sorridenti che giocano con bambini altrettanto gioiosi e felici.
Negli ultimi tempi quando cammino per strada incrocio solo mamme e bambini. Alla televisione vedo soltanto pubblicità di abbigliamento e cibo per neonati. Tutte le conversazioni che involontariamente origlio trattano di parti, nascite, bambini.

Qualche giorno fa ho incontrato al parcheggio del supermercato una vecchia amica di scuola. Ho scoperto che ha appena partorito il suo secondo figlio. Le ho fatto le congratulazioni con il cuore in gola e le lacrime che mi offuscavano la vista. Ho finto che fossero di commozione. Invece erano di rabbia, e di dolore. Dopo questo incontro, ho detto a mio marito di rientrare in macchina, perché avremmo fatto la spesa da un’altra parte. Non potevo sopportare di vedere il suo carrello pieno di pannolini.
Perché lei sì, e io no? Cos’ha questa ragazza più di me? ho continuato a chiedermi per ore ed ore.

Niente. Lei non ha niente più di me.

A parte i figli, io non ho nulla da invidiarle. A me piace la mia, anche se incompleta, vita.
Sono sempre stata brava nello studio, intelligente, volenterosa, talentuosa, sensibile. Mi sono spesso sentita ripetere che con le mie qualità avrei fatto grandi cose nella vita. Certo, io non posso lamentarmi della mia esistenza, ma… Non ho la cosa che più desidero.

Oggi in ufficio sono venuta a sapere che una ex collega è incinta. Io meriterei un figlio più di lei, ho continuato a ripetermi per tutto il giorno.
So che l’odio non mi può far bene. Lo so. Eppure a volte odiare mi sembra l’unico modo per non impazzire. E poi, in realtà, io non odio veramente queste donne. Io odio la paura, odio il destino, odio quello che ci sta capitando. E queste donne sono l’unico capro espiatorio su cui sfogare, dentro di me, senza lasciarla trapelare, la mia sofferenza.

La primavera è durata solo qualche giorno, per ora. È da più di una settimana che il freddo e la pioggia sono tornati. Ed io ne sono felice, per una volta. E spero che questo tempo malinconico duri ancora. Così, almeno per un po’, non dovrò vedere i bambini correre felici nel parco insieme alle loro mamme.
Mamme che, forse, non sanno di essere tanto fortunate.