“Mamma, perché la scuola è chiusa?”
Eh. Bella domanda, Roberto.
“Sai, amore, perché c’è un virus. E noi dobbiamo stare in casa per evitare di ammalarci. E per non rischiare di far ammalare altre persone.”
“Vilus? Ove? Io non edo niente!”
“Non si può vedere. È nell’aria. Per questo è così pericoloso. È un nemico invisibile…”
Questa conversazione si ripete ogni santo giorno da due settimane. Per fortuna il mio bambino ha una capacità di concentrazione decisamente bassa, perciò si dimentica facilmente del “vilus”.
E si rimette a giocare come se niente fosse.
Mio figlio si è già abituato a questa nuova normalità, così silenziosa e lenta.
A questa vita in standby.
I bambini sono creature molto più semplici di noi. Accettano le situazioni senza porsi troppe domande. E accontentandosi delle – spesso scarne – giustificazioni che gli adulti sono in grado di dare loro.
Cerco di non trasmettere a mio figlio la paura, il nervosismo e la tristezza che mi tormentano in questi giorni. Di fingere che sia tutto a posto.
Ma così non è.
La mia normalità mi manca.
Probabilmente tante persone pensano che la sottoscritta abbia fatto salti di gioia, alla notizia di una legge che ci obbliga a tenere almeno due metri di distanza dalle altre persone…
Credo che chi non mi conosce bene non mi veda come un tipo particolarmente affettuoso, o desideroso di contatto umano…
In realtà, nella mia vita non ho fatto altro che cercare quel calore che solo un abbraccio può dare, forse senza sapere bene come fare… Forse provando la paura di trovarlo, quel contatto. Di non saperlo mantenere. Di non sapere riconoscere chi meritasse che lo ricambiassi, e chi no.
Sono tra le persone fortunate che può lavorare da casa, (anche se lavorare in compagnia di un 5enne, ve lo assicuro, talvolta è faticoso da considerare una fortuna).
Le riunioni si fanno via Skype. Non si vanno a trovare i famigliari, ma si sfruttano le videochiamate. Si fa la spesa online.
La tecnologia è una cosa fantastica. Ci permette di fare praticamente tutto senza muoverci di casa.
Ma siamo sicuri che possa sostituire davvero tutto tutto?
I sorrisi e gli abbracci sono diventati emoticon. Le chiacchierate davanti ad un calice di vino, vocali su Whatsapp.
I calici di vino si bevono in solitudine. E, se non sono interrotti da chiacchiere e risate, i sorsi diventano più lunghi e ravvicinati. Non si beve per sentirsi più leggeri, ma per sciogliere la tristezza. Invece, la testa diventa ancora più pesante, i pensieri più cupi.
Esco poco di casa, e quando lo faccio incontro volti spaventati, nascosti da inutili mascherine; non occorre una grande immaginazione per sapere che non celano alcun sorriso.
Resilienza.
È questa la parola a cui penso più spesso, in questi giorni.
Soprattutto da ieri, da quando anche la mia città, Parma, è entrata a far parte della #zonarossa.
Solo poche settimane fa ho letto “Resisto dunque sono” di Pietro Trabucchi, e per fortuna ho l’abitudine di riempire i libri di sottolineature e appunti, perché oggi, le sue parole, mi vengono in grande aiuto…
Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo resalio. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui. (Pietro Trabucchi, “Resisto dunque sono”)
E allora mi sforzo di credere che andrà tutto bene, mi dico che dobbiamo fare di tutto per rispettare le regole e raccogliere le energie che ci serviranno per ripartire, una volta che l’incubo sarà svanito.
Penso che la nostalgia che provo per la normalità mi porterà ad apprezzare di più la quotidianità, quando sarà ripristinata (la spesa all’Esselunga del sabato mattina… Lo scontro tra carrelli! Le file alle casse! Quanto mi manca tutto questo!). Penso che, quando finalmente potrò rivedere i miei amici, abbracciarli sarà ancora più magico.
Spiego a mio figlio che dobbiamo riempire queste ore noiose di tutto ciò che di bello ancora abbiamo attorno a noi. Dentro di noi.
Possiamo leggere quei libri che da troppo tempo aspettano di essere aperti.
Inventare nuovi giochi.
Possiamo approfittarne per abbracciarci un po’ più spesso, perché troppe volte il tran tran della vita quotidiana ce lo impedisce (e finalmente trovare il tempo di Googlare questa espressione e capire da dove derivi) e per pianificare le prossime vacanze… Non importa se non sappiamo quando ci sarà concesso partire – prima o poi, potremo farlo… Prima o poi.
Intanto, resistiamo e ci adattiamo.
Perché non possiamo fare altro.