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Mai fidarsi della vita (un mese senza Diana)

In questo periodo mi sento fagocitata dal dolore. Sì, ho detto proprio “fagocitata”.

Non amo questa parola, ha un brutto suono, non trovate? Eppure, è l’espressione che meglio esprime ciò che provo.

Fagocitare: accaparrarsi con prepotente avidità, incorporare, annettersi.

Nelle ultime settimane mi sono ritrovata a fare da confidente a persone che stanno soffrendo dolori inimmaginabili, dolori talmente potenti che, se dovessero penetrare nella mia vita, non so veramente come farei ad affrontarli.

Sono brava ad ascoltare. Mi piace ascoltare le storie degli altri e, soprattutto, mi piace pensare di poter offrire un po’ di conforto al dolore altrui. Anche se poi, quel dolore, diventa un po’ anche il mio, e mi fa stare male.

Anche io ho tanta sofferenza da cui vorrei liberare il mio animo. Spesso non lo faccio, per timore di gravare sugli altri, e poi, diciamo la verità, è difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltarti. Mi capita spesso di imbattermi persino in qualcuno che non crede alle mie storie di vita vissuta, soprattutto quando parlo della mia famiglia di origine.

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La Diana sulla Luna

La prima cosa che Robertino fa, ogni sera, quando torna dall’asilo – dopo aver chiesto un pezzo di cioccolato – è salutare le sue cagnoline. Diana e Yuma.
Ma quel venerdì sera maledetto, c’è solo Yuma ad aspettarlo. Non se ne accorge subito. È così abituato alla loro presenza, da considerarla una cosa… Scontata. E la possibilità che non possano più esserci, impossibile.

“Mamma, dov’è Iaia?”
“Siediti, tesoro. Devo dirti una cosa. Ti ricordi che Diana era molto ammalata, vero?”
“Sì. Bua al pancino.”
“Esatto. Aveva molto male al pancino. Ecco, stava così male che è dovuta andare via.”
“Per sempre?”
“Purtroppo, sì.”
Sgrana gli occhi. Non ho mai visto quello sguardo negli occhi del mio bimbo.
“E non tornerà mai più?”
“No, amore mio. Mai più. Mi dispiace tanto.”
Roberto piange. Mai lacrime mi hanno fatto più male.

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YuyuYaya (ciao, Diana)

YuyuYaya. È così che, per anni, mio figlio ha chiamato il luogo in cui vive. Si rifiutava proprio di dire la parola “casa”, e solo a fatica nelle ultime settimane la logopedista è riuscita a convincerlo a pronunciare questa, apparentemente semplice, parola.

Per lui casa è YuyuYaya.

Ciao, bibì! Io vado da YuyuYaya!” diceva, con entusiasmo, all’uscita dall’asilo, e ovviamente nessuno lo capiva (non che la cosa gli importasse più di tanto).

In realtà un po’ mi dispiaceva che la logopedista volesse a tutti i costi convincerlo a fargli abbandonare questo curioso modo di dire. Io lo trovavo così dolce, tanto che ogni volta mi veniva da sorridere.

Già, perché YuyuYaya non è una strana parola in dialetto bambinesco. Non è neppure uno scioglilingua assurdo. Yuyu e Yaya sono i nomi dei nostri cani: Yuma – detta YuYu per gli amici – e Diana – che mio figlio ha ribattezzato Yaya.

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Cosa vuol dire essere infertili?

Oggi vorrei spiegarvi cosa significa NON poter avere figli.

Ricevere una diagnosi di infertilità è come vedersi rubare il futuro.

Immaginate di camminare tranquillamente per la strada e ritrovarvi d’un tratto, senza sapere come, senza aver mai sbagliato direzione, sull’orlo di un precipizio.

Una diagnosi di infertilità è una sentenza di infelicità.
Non appena ti senti rivolgere quelle fatidiche parole: “Mi dispiace, lei non può avere figli,” ti senti morire un poco dentro.
Una sensazione che non riuscirai mai a scrollarti di dosso. Di cui il tuo animo resterà per sempre impregnato.

Possono occorrere settimane, mesi, anni, per accettare questa sentenza, e spesso non ci si riesce neanche. Tante sono le coppie che soccombono sotto il peso di questa verità, troppo grande da sopportare, troppo faticosa da combattere.

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Le fasi del lutto

Conoscete le cinque fasi del lutto?
Santa Wikipedia mi dice che questo modello è stato elaborato dalla dottoressa Elisabeth Kübler Ross.

Le fasi sono:
1. Fase della negazione o del rifiuto
2. Fase della rabbia
3. Fase della contrattazione o del patteggiamento
4. Fase della depressione
5. Fase dell’accettazione

Sono profondamente convinta che questi siano gli stessi stadi che si trova ad affrontare una coppia dopo aver scoperto la propria sterilità.
In fondo, sempre di morte si tratta.
La morte di un sogno. La morte di una felicità che si credeva facilmente raggiungibile. La morte di un figlio concepito da due persone che si amano, così come stabilito dalla Natura.

Certo, a differenza di un lutto vero e proprio, in questo caso non tutto è perduto.
Esiste la PMA. E l’adozione.
Un figlio conquistato grazie a bombe ormonali e provette nel primo caso, sopportando la burocrazia e mille difficoltà nel secondo.
Ma, in tutti modi, qualunque sia la strada che le coppie come me e Marito decidono di intraprendere, qualcosa dentro di noi muore.

Ero certa di aver già attraversato tutte queste fasi. E di esserci riuscita egregiamente.
Evidentemente, non è così.

Credevo di trovarmi nell’ultima fase, la più serena. Quella dell’accettazione.
Credevo di aver imparato a convivere con questo “lutto”. Con la morte di un figlio naturale.
Credevo di essere diventata più paziente e calma. Che il pensiero dell’adozione mi avesse fatto scordare che sono… Diversa.

E’ così? O sto solo mentendo a me stessa?

In questo momento mi sento più nella fase della depressione. O in quella della rabbia.
Forse io, che sono sempre stata anticonformista, sto percorrendo le fasi del lutto “al contrario”.
Magari presto affermerò pure che i medici si sono sbagliati, che Marito non è veramente sterile…

In questi giorni ho pensato e urlato tanto.
Io e Marito abbiamo litigato a lungo, e trascorso diverse notti separati, chi sul divano e chi al piano di sopra, nella camera da letto (vi lascio indovinare chi ha dormito dove).

Sono stata troppo drammatica, depressa, impulsiva, nel mio ultimo post?
Probabilmente sì, ma non lo so, non ho voglia di rileggerlo.

Ho inveito tanto contro Marito in questi giorni. Soprattutto contro la sua sterilità. Come non ho mai fatto prima.
Che senso ha arrabbiarsi, ora?
Sono quasi due anni che so come stanno le cose. Perché questa rabbia improvvisa, devastante?

So di aver detto cose cattive, cose che a me non piacerebbe sentirmi dire se fossi al suo posto.
Marito non ha colpa se da piccolo ha preso gli orecchioni, se nessun dottore ha mai pensato che questo avrebbe potuto portargli dei gravi danni alla sua fertilità.
In realtà non ce l’ho con lui. Ce l’ho con il destino che mi rende sempre tutto più difficile che alle altre persone.

Ho sempre creduto che bastasse impegnarsi, lottare, per uscire da un problema.
Ma non è così. A volte, più ti sforzi, più peggiori le cose. Oppure rimani fermo.
Come imprigionato nelle sabbie mobili.

So che sono stata una stupida ad essermi lasciata deprimere da un pomeriggio trascorso insieme a bambini che non sono riuscita a conquistare.
Sono stata una stupida ad aver invidiato mio marito.
Sono stata una stupida a paragonare la maternità biologica a quella adottiva. Lo sappiamo tutti che sono due cose diverse, soprattutto all’inizio.

E’ che ho tanta paura.

Avevo paura persino a tornare qui, nel mio nido virtuale. Avevo paura di leggere i commenti al mio ultimo post. Sapevo che sarebbero stati duri, pieni di critica, di pietà.
E questo perché ero consapevole di aver scritto parole sbagliate, rabbiose.
Ho letto i vostri commenti tutto d’un fiato.

Avete detto tutto ciò che Marito non ha fatto altro che ripetermi negli ultimi giorni.
Che non è detto che un figlio naturale ami la propria madre incondizionatamente.
Che è scontato che due bambini grandicelli si trovino meglio con un giovane uomo piuttosto che con una donna.
Che sono egocentrica e ho sbagliato a decidere di fare volontariato per sentirmi amata.

Il fatto è che io non sono tanto diversa dai bambini che si trovano in comunità, con alle spalle delle famiglie disagiate.
Non ho mai superato, e forse mai supererò, la mancanza di una famiglia di riferimento nella mia vita.
L’unica differenza è che la mia situazione famigliare non è mai venuta alla luce. Non sono mai apparsa come una bambina o una ragazza disagiata.
Solo Marito, gli amici più stretti, la mia psicologa, sanno cosa ho passato. E quanto ancora questo mi faccia male.
Un’altra differenza è che io non sono più una bambina. Sono un’adulta. Da me ci si aspetta che sia saggia e riflessiva.

Ma, a volte, non ci riesco.
A volte la bambina sola e ferita che c’è in me torna alla luce.
E non riesco a metterla a tacere.
Anche se sono grande.

Mi detesto per aver dubitato sull’idea dell’adozione.
In realtà non ho avuto davvero dei dubbi. Sono e spero di essere sempre felice di aver scelto questa strada.

Ma ho paura!

Ho paura dell’ennesimo fallimento.

Ho paura di dover aspettare anni e anni.

Ho paura che il giudice non ci chiamerà mai.

Ho paura che quel bambino che tanto ho aspettato, cercato, sognato, non riesca ad amarmi.

Ho sempre pensato che l’amore fosse sufficiente per ottenere altro amore.
E se non fosse così?

L’assistente sociale, durante i colloqui, ci ha fatto capire molto bene che le coccole e l’affetto non bastano a crescere un bambino (soprattutto se adottivo, ma di certo vale anche per un figlio  biologico). Che occorre comprensione, empatia, pazienza.
Tutto questo è ben chiaro nella mia mente. E sono pronta ad affrontarlo. Sono pronta ad affrontare qualsiasi situazione. Comportamenti violenti, droga, alcool, gioco d’azzardo, cattive compagnie,  domande sull’adozione, il desiderio di ritrovare la famiglia originaria…

Tutto questo non mi fa paura.
Sono brava ad affrontare i problemi. Sia dal lato “pratico” che da quello “emozionale”.

L’unica cosa che mi fa paura è che lui, o lei, non riesca ad amarmi.
Che non mi prenda mai per mano.
Che non mi cerchi per darmi un bacio.
Che non mi preghi di leggergli/le la favola della buona notte, che non mi chieda consigli.

Che non mi veda mai come una “mamma”.

Che non voglia accettare tutto l’amore che ho da dargli.

Una volta, in un post, ho affermato che non mi importerebbe se mio figlio non volesse mai chiamarmi mamma, se preferisse chiamarmi per nome.

Beh, mentivo.
In quel momento non ne ero consapevole, sia chiaro.

Ma ora mi rendo conto che è così.
Ho il terrore di non essere mai una mamma.

Fino a ieri ho tenuto relegato questo pensiero, questo terrore, in un angolo del cuore.
Ma, dopo quello che è accaduto con quei due bambini…

Io non piaccio alla gente. Non sono mai piaciuta.
E non è per fare del facile vittimismo; è proprio così.

Gli altri non mi odiano, no. Io provoco solo… Pura e insignificante indifferenza, nella maggior parte dei casi.

Mi sono sempre sentita invisibile.

Quando ero bambina e partecipavo alle feste di compleanno, spesso mi sentivo tagliata fuori, inadatta, a disagio. Come un pesce fuor d’acqua.
Non sono mai stata brava a prendere l’iniziativa, a propormi agli altri bambini. Ero timida e avevo paura di essere cacciata via.

L’unico modo che conoscevo per attirare l’attenzione, per dire: “Ehi, ci sono anch’io! Io esisto!” era… Fuggire via. Sparire.
Assurdo, vero?

Nel bel mezzo del pomeriggio scappavo dalla casa del festeggiato di turno e mi nascondevo, sperando che qualcuno venisse a cercarmi, che qualcuno sentisse la mia mancanza, che qualcuno volesse ritrovarmi.
Il più delle volte nessuno si accorgeva della mia fuga e, dopo essere rimasta a lungo nascosta, tornavo con la coda tra le gambe.
Altre volte, invece, gli altri bambini mi venivano a cercare. Ma nessuno era felice che stessi bene.
Dicevano sempre: “Brava, ci hai rovinato la festa! E’ un’ora che ti cerchiamo!”
E così sono diventata famosa come Eva la guastafeste.

Marito dice che non è vero. Che ho tante persone che mi amano. Peccato che, quando ha provato ad elencarle, gli sia venuto in mente solo il suo stesso nome.

Secondo lui non è tanto difficile farsi amare da un bambino. Basta una battuta, uno scherzo, fare il solletico, proporre di fare qualcosa insieme…
Ma a me tutto questo non riesce. Con i bambini della comunità mi sento molto timida. Ho paura ad avvicinarmi, a meno che non siano loro a chiedermelo. E se mi allontanassero? Se mi rifiutassero?
Io, che bambina non sono mai stata, non so bene come comportarmi con loro.

So che con mio figlio sarà diverso. Perché io sarò la sua mamma, almeno sulla carta, e avrò e sentirò tutto il diritto di sgridarlo, di abbracciarlo, di prendergli la mano.

Ma se lui mi rifiutasse?

Ho sbagliato tutto.
Il vero motivo per cui ho deciso di fare volontariato in questa comunità è sbagliato. Sentirmi mamma. Che idea stupida ed egoista.

Ciò che più desidero è ricevere amore, quell’amore che ho sempre sognato.
Io sono pronta a sacrificare tutta me stessa per il bambino che arriverà. Che poi, per me non si tratterebbe di un sacrificio, ma della strada per la felicità.
Ma voglio che anche lui mi ami. Lo voglio, ma non posso pretenderlo.

Potrei non piacergli.
Potrebbe preferire Marito.

Qualcuno, nei commenti al mio ultimo post, mi ha detto che questa eventualità esiste.
Non ci avevo mai pensato.
Mi ritrovo a rifletterci solo ora.
E il pensiero mi spaventa.

Riuscirò a trattenere la rabbia, se questo dovesse accadere?
Riuscirò ad accettarlo?

E quel bambino potrebbe anche non arrivare mai.

Questa è l’ipotesi che mi fa più paura.
Perché io sono pronta a rischiare, a impegnarmi, per creare la famiglia felice che ho sempre sognato.

Voglio avere la possibilità di rischiare.
Ma ho anche il timore di non riuscire.

Sono veramente tanto stanca.
E anche in piena fase premestruale.
Piango per qualsiasi cosa. Non è proprio il momento più adatto per lasciarsi andare a riflessioni profonde, che ne pensate?

Oggi ho inveito contro una collega perché non mi ha messo in copia in un’e-mail…
E sogghignando stile ” personaggio cattivo dei cartoni animati” ho affermato di voler dare fuoco all’azienda con tutti i colleghi dentro.

Ehm, insomma… Chissà, forse questa non è veramente la “fase della depressione”. E manco quella della “rabbia”.
Forse è solo la fase “ormoni in subbuglio”.
I brufoli e le tette gonfie sembrano darmi ragione.

Speriamo che sia davvero così.

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La sacra famiglia

No, il titolo di questo post non si riferisce a Giuseppe, Maria e il bambin Gesù, ma rimanda alla dichiarazione fatta pochi giorni fa da Guido Barilla, di cui probabilmente avrete letto sui giornali (altrimenti l’articolo è qui).

Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale.

Non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale

E inoltre:

Nell’intervista volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all’interno della famiglia

Queste sono alcune delle frasi pronunciate dal dott. Barilla. Queste parole mi offendono, e molto, perché io sono sempre stata contraria alla discriminazioni di ogni genere.

Inoltre, ma questo non tutti sono riusciti a coglierlo, affermazioni di questo tipo non offendono soltanto gli omosessuali, ma anche le donne.

Cerchiamo di capire quale sia questa fantomatica famiglia classica che piace tanto alla Barilla e all’italiano medio…

Dalle pubblicità della suddetta azienda, ma potremmo prendere ad esempio un lo spot di un qualsiasi detersivo o cibo, e dai commenti che sento in giro e che leggo su internet, la famiglia perfetta è quella composta da un uomo e una donna e diversi figli, concepiti in maniera naturale, e ovviamente bellissimi, intelligentissimi ed educatissimi.

L’uomo e la donna, ovviamente, si sono sposati in chiesa con ricco ricevimento a cui hanno partecipato almeno cento persone.

Ovviamente la donna si sveglia prima di tutti per preparare, con il sorriso sulle labbra, una lussuosa colazione, che durerà un paio d’ore, per marito e figli. Poi l’uomo va al lavoro, mentre la donna veste, lava e poi accompagna i bambini a scuola; infine, sempre con il sorriso sulle labbra, torna a casa per spolverare e lavare i pavimenti, naturalmente senza osare sbuffare o lamentarsi.

L’apice della sua giornata viene raggiunto quando scopre un nuovo prodotto per la pulizia o quando riesce a togliere le macchie di vomito, sugo o fango dalla maglietta del bimbo.

Se invita le amiche a casa è solo perché ha organizzato la presentazione di un qualche prodotto cosmetico o per consigliare loro una nuova aspirapolvere dai poteri magici.

Quando alla sera il marito torna a casa la donna è pronta a servirgli un’ottima cena che ha preparato con le sue mani, stando ai fornelli per ore ed ore. Ovviamente il marito non tocca neppure un mestolo, non sia mai, sacrilegio!

E se il figlio adolescente vuole invitare una decina di amici a casa, a qualsiasi ora del giorno e della notte, la mamma è pronta a preparare per tutti loro un succulento spuntino. Ovviamente il figlio adolescente non sa neppure accendere il fornello. Poverino, perché dovrebbe imparare? Tanto c’è la mamma che fa tutto!

Ovviamente la mamma non ha alcun altro interesse che non sia quello di accudire marito e figli come una schiava. Non legge libri, non guarda la televisione, non esce con le amiche, non è mai stanca.

E quando viene l’ora di andare a dormire, ovviamente la donna dev’essere pronta a indossare un sexy completino intimo, a togliersi i panni della “santa” per diventare una “puttana” che deve soddisfare i bisogni del marito. Ma solo per poche ore, eh, anzi per pochi minuti, insomma finché il marito non ha raggiunto il piacere (certo, perché il rapporto sessuale finisce quando lui ha avuto l’orgasmo, le donne mica devono godere, eh, solo le donnacce provano piacere!). Poi si torna ad essere delle sante.

E, il mattino successivo, tutto ricomincia da capo.

Certo, poco importa se la donna è casalinga perché non è riuscita a trovare un lavoro e ha messo da parte le sue ambizioni, poco importa se il marito picchia lei o i figli, poco importa se i figli sono nati per caso, poco importa se si sono sposati in chiesa perché così voleva la zia Giuseppina… Poco importa se la famiglia del Mulino Bianco, in realtà, non esiste.

L’importante è che una coppia sia formata da un uomo e una donna, sposati, con tanti bambini, dove lei è felice di assecondare i bisogni di tutti i membri della famiglia, dimenticando i propri.

Mi sembra di essere tornata agli anni Cinquanta, quando una donna che a trent’anni non era sposata veniva considerata una “zitella”, quando il padre, il capofamiglia, era l’unico in casa che lavorava e dettava legge, quando il divorzio non esisteva neppure, quando fare figli non era una scelta, ma un obbligo imposto dalla società…!

Siamo nel 2013. E pare che nulla sia cambiato.

Ci crediamo tanto liberi, ma siamo ancora ancorati, imprigionati, in una mentalità ipocrita e falsa.

Mia madre ha sempre considerato la nostra come la famiglia “classica”, “tradizionale”. E, agli occhi degli altri, era proprio così. Mia madre si è sempre vantata di non essere divorziata e di essere riuscita a stare al fianco di mio padre per tanti anni. Si sono sposati in chiesa. Hanno avuto una figlia – la sottoscritta – in maniera naturale. Mia madre non ha mai lavorato con la scusa di dovermi accudire…

Se potessi parlare a tu per tu con il caro dott. Barilla , gli vorrei dire due paroline.

Gli vorrei dire che avrei preferito di gran lunga essere cresciuta con amore da una coppia gay che si vuole bene e si rispetta, piuttosto che con due persone che non sono mai state in grado di comprendermi e amarmi e che hanno sempre litigato e si sono picchiate in mia presenza. Avrei preferito avere una mamma lavoratrice in grado di insegnarmi il valore del duro lavoro, piuttosto che una finta-casalinga che non lavorava solo per pigrizia e lasciava la casa sporca come un porcile… Avrei preferito avere due genitori che non si sono mai sposati, piuttosto di due che sono sposati da tanti anni e non sono neppure venuti al matrimonio della loro unica figlia…

La mia non sarà mai la sacra famiglia tradizionale. Io e Marito ci siamo sposati in comune con solo trenta invitati, avremo un figlio che non sarà nato dal mio grembo, io continuerò a lavorare, odio stirare, non so cucire, è Marito che fa da mangiare… Eppure saremo una famiglia molto più felice di tante coppie “tradizionali” che si vedono in giro.

Quelle che hanno avuto dei figli perché lo sentivano come un obbligo verso la società, e ogni istante si pentono di averli messi al mondo, rimpiangendo i bei tempi in cui potevano divertirsi… O che magari si tradiscono a vicenda, ma non osano lasciare l’altro/a per paura delle chiacchiere dei vicini…

Ma per favore!

Famiglie con figli o senza, famiglie con figli adottivi, biologici, nati in provetta, famiglie allargate, famiglie di gay, famiglie in cui lui lavora e lei sta a casa, in cui lei lavora e lui sta a casa, ma chi se ne frega? Direi che c’è posto per tutti in questo mondo. Per le sacre famiglie come per quelle dannate. Quello che importa è l’amore e il rispetto.

Mi preoccupano di più le sacre famiglie in cui i bambini vengono picchiati o abusati piuttosto che una coppia di gay che non pretende alcun diritto se non quello di amarsi in santa pace!

Basta giudicarsi a vicenda. Basta imporre la propria visione della vita agli altri.

E basta ritenere la donna la “regina del focolare!” Se una donna vuole esserlo, bene, che lo sia pure, ma le donne che vogliono lavorare, che non sanno cucinare, che non vogliono figli, non sono da meno! Così come un uomo che cucina o spolvera o pulisce o accudisce i figli non perde valore!

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5 pt

Sono stanca. Arrabbiata. Ho voglia di piangere. Ma nessuna di queste emozioni ha un suo preciso perché. O forse sì. Non lo so. Non so più niente.
Ieri sera ho avuto una crisi di nervi. Avrei voluto spaccare la casa, e se non l’ho fatto è solo perché mi sono mancate le forze.
Questo è un post transfer molto diverso dal solito.
Mercoledì sono tornata a lavorare, esattamente il giorno successivo al transfer.
Chissà perché, forse sono troppo ingenua e troppo fiduciosa verso il genere umano, ma credevo sinceramente che i miei colleghi sarebbero stati un po’ più rispettosi verso i miei confronti, sapendo quello che sto passando, sapendo che questo è un periodo molto delicato.
Credevo che avessero capito che vado a lavorare (rinunciando alla malattia di cui ho diritto) anche per loro, per non lasciarli nella cacca e per non costringerli, ancora una volta, a sostituirmi (che poi sostituire me è molto difficile, dato che lavoro come tre dei miei colleghi cinquantenni messi insieme…).
E invece, non è andata così. Il giorno in cui sono rientrata al lavoro è trascorso tra stupidi litigi per stupidi motivi di lavoro.
Quando questo accade io divento matta. Comincio a sentire un mal di pancia terribile e il cuore che batte fortissimo.
Perché? Perché tutte a me? Perché tutti mi odiano?
Io devo stare tranquilla! Almeno in questi giorni, devo stare tranquilla! Perché non merito neppure qualche giorno di pace?
Per fortuna poi la situazione si è placata.
Il mal di pancia, però, mi è restato.

Ma non è per questo che sto tanto male.

Non posso bere, non posso fumare. Durante i precedenti post-transfer né l’alcool né il fumo mi sono mancati. Ero convinta che valesse la pena fare quel piccolo “sacrificio” per i miei puntini luminosi, che dovevo fare di tutto per aiutarli a rimanere ben aggrappati alla loro mamma…
Ma, dopo due tentativi falliti, le speranze iniziano a vacillare. Tutto quello che sto facendo, tutti i piccoli “sacrifici” che sto compiendo, probabilmente saranno del tutto vani.
Ho una fottuta voglia di fumare fino a farmi venire la nausea e di trangugiare una bottiglia di Franciacorta, fino a stordire i miei sensi, sperando che l’alcool riesca a farmi ridere, senza un motivo, perché io il motivo di ridere l’ho perso da tanto tempo.
Ma non è neppure per questo che sto male.
Ho deciso di tornare subito a lavorare e fare la vita “normale”, ma devo dire che con tutte le buche che ho preso con la macchina, solo un miracolo potrebbe aver permesso ai miei piccini di sopravvivere.
E quindi, ora, ho pure il senso di colpa per non essere stata a casa in malattia. L’ultima volta, però, mi sono pentita per non essere andata a lavorare.

Sono indecifrabile persino a me stessa.

Ma no, non è per questo che sto male.

Ieri io e mio marito abbiamo incontrato un nostro conoscente, un ragazzo della nostra età. Ieri era estremamente sorridente. Luminoso, direi. Con un gran sorriso ci ha annunciato ch la sua ragazza dovrebbe partorire a giorni. Io sono entrata in macchina senza proferire parola, mentre mio marito è rimasto a scambiare qualche frase di circostanza.
“Lui non ha mica nessuna colpa…” mi ha detto poi, vedendomi tanto amareggiata e conoscendo il motivo del mio disagio.
Lo so che non ha colpa.
Questi due ragazzi sono brave persone. Di certo saranno bravi genitori, non ho motivi per pensare il contrario.
Di certo si meritano di essere genitori…
E perché noi no?
Ma non è per questo motivo che sto male.

I miei genitori hanno ricominciato a litigare.
Avere due genitori che si comportano come adolescenti, una madre che si mette mezza nuda su internet, che minaccia di rigarti la macchina, ti chiama “maledetta” e ti dice che la vita ti punirà… E finire in cura dallo psicologo per questo… Non è il massimo, ve l’assicuro.

Ma no, non è neanche questo il motivo della mia crisi di nervi.

In questi giorni ho realizzato che sono sola. E non solo perché non ho i genitori. Non è di certo la prima volta che mi ritrovo a fare questa affermazione, ma… Ci sono momenti in cui la solitudine pesa di più. Ci sono momenti in cui riesco a dire “chi non mi vuole non mi merita” o “meglio soli che male accompagnati”… Questo, però, non è uno di quelli.

Sicuramente le amiche non mi hanno abbandonata perché faccio del vittimismo. Ogni volta che parlo di me per più di due minuti mi sento in colpa e inizio a riempire il mio interlocutore di domande sulla sua vita, perciò…
Le amiche sono tutte prese dai loro figli, dalla ricerca di un lavoro, dalla loro compagnia di amici…
Io non sono un tipo “da compa”, non ho mai fatto parte di un gruppo, sono più un outsider.
Forse è per questo che non piaccio, chi lo sa.
O forse il problema è che nessuno può e vuole capire cosa significhi quello che sto vivendo da un anno a questa parte. La gente si stanca presto dei drammi, anche se la persona che li subisce cerca di affrontarli con il sorriso, senza far pesare il suo dolore sugli altri…
Ma il bello è questo. Io non voglio amiche con cui devo reprimere me stessa, con cui devo trattenere le lacrime per non sembrare quella che fa del vittimismo, con cui devo ridere a forza per sembrare simpatica… Io voglio amiche con cui posso piangere, e urlare, e chiedermi perché Dio mi odia tanto, e immaginare quel figlio che forse mai arriverà, e lasciarmi coccolare…

Oggi ho cominciato a ricontattare amiche che non sento da un pezzo, sperando di riallacciare qualche rapporto. Probabilmente in poche risponderanno, e forse solo una o due accetteranno il mio invito, ma… Se riuscissi a ritrovare anche solo un’amicizia, un’amicizia vera, sarei già felice.

E… No, non è questo il motivo per cui sto male.

Oggi io e mio marito siamo andati a trovare La Nonna nella casa di riposo. Non sono neppure sicura che mi abbia riconosciuto.

Mi ha pregato, più e più volte, di portarla a casa, perché lì non ci vuole stare… Io non sapevo cosa risponderle, mi veniva solo da piangere.
Poi, guardando me e mio marito, ha chiesto se siamo sposati.
“Sì,” abbiamo detto.
“E bambini, ne avete?”
Io e mio marito ci siamo guardati, sconsolati.
“No, nonna, non ne abbiamo…”
“Ah… Beh, fate bene, se volete avere più tempo libero per voi!”
“Eh già… E’ proprio così.”
La stessa conversazione si è ripetuta per tre – TRE – volte. Sigh.
Poi La Nonna ha voluto sapere come sta SUA MAMMA. Non potevo mentirle, e così le ho detto che è morta undici anni fa. Lei sembrava non ricordarsi nulla, e mi ha guardato sgranando gli occhi. Sembravano quelli di una bambina. Innocenti. Buoni. Spaventati.
“E’ morta?”
“Sì, ma… Era molto anziana… Se fosse viva, ora, sarebbe veramente molto, molto vecchia…”
Poi La Nonna si è rinchiusa nel suo silenzio. Le ho chiesto di parlarmi, di dirmi cosa provava, e lei mi ha detto soltanto che le emozioni erano troppe.
“Tutto il tempo che sono stata qui io ho pensato alla mia mamma… E ora tu mi dici che non c’è più!”
Da quando è entrata nella casa di riposo La Nonna è sempre più magra e sempre più lontana… Sta perdendo completamente la memoria, e io non posso permettere che questo accada! Ho provato a ricordarle alcuni momenti della sua vita, l’ incontro con suo mio marito, l’ufficio in cui lavorava, di quando il pippo sparava e lei doveva buttarsi nel fosso, di quando curava sua madre morente, e ho cercato di farle ricordare anche gli ultimi anni, quando ha vissuto con mia madre e mio padre, e i gattini che si accucciavano sul suo letto e le facevano compagnia… Niente. Sembrava non ricordarsi niente.
Poi, come succede sempre, dopo qualche minuto è andata in trance, e… Non c’è stato verso di farla parlare di nuovo. Io e mio marito ce ne siamo andati, lasciandola alle cure della suora e promettendole che saremmo tornati al più presto.
E io, ancora una volta, per l’ennesima volta, ho pensato a quanto sia bastardo il destino.
Se io e mio marito avessimo un bambino… Sono sicura che lui/lei sì che sarebbe capace di riportare La Nonna alla vita!
E riporterebbe alla vita anche me… Ma quel bambino non c’è. Quell’ ingenuità, quella speranza, quella dolcezza, quel futuro non c’è. E a noi non resta che piangere e tacere.

Non è neppure questo a farmi stare male…
E’ tutto questo messo insieme.
Tutto questo è troppo per me. Troppo!
Ma penso che potrei affrontare tutto se non mi sentissi tanto VUOTA.
No, non sono mezza piena. E neppure mezza vuota. Sono proprio vuota.
Me lo sento.
E’ così.
Non è per essere pessimisti, o vittimisti, o chissà cos’altro.
E’ che non ho motivi per credere il contrario.
Questa volta ho deciso di anticipare ulteriormente il test di gravidanza. Lo farò venerdì prossimo, al 10° pt.
Se fossi incinta si dovrebbe già vedere. E se sarà negativo, almeno potrò evitarmi di passare un altro week end chiusa in casa.
Potrò ubriacarmi, fumare, e anche se poi passerò la notte chinata sul cesso a vomitare, almeno per qualche ora starò bene.
Certo, quando poi l’effetto dell’alcool sarà finito tutto sarà triste come prima.
Ma sembra proprio che qualche ora di finta euforia sia tutto ciò che posso avere, tutto ciò che mi merito.
L’unica cosa di cui sono sicura è che se non diventerò mamma al più presto, diventerò senz’altro un membro dell’Alcolisti Anonimi.

Pubblicato in: La mia storia

Me, myself and I

Domani rientrerò al lavoro dopo sedici giorni di malattia.

Mi toccherà subire tutte le domande di colleghi morbosamente curiosi che non hanno la più pallida idea di quello che sto affrontando da sette mesi a questa parte e a cui ho raccontato un sacco di palle.

Sono sola a casa. Marito è andato via per lavoro e tornerà domani sera.

Ho passato l’ultima ora a sorseggiare vino e fumare come un turco (dopo la gravidanza-lampo ho ripreso tutti i miei vizi) parlando da sola. Anzi, non proprio da sola. Ho parlato per un’ora immaginado il primo colloquio con l’assistente sociale. Sì, sono pazza.

Come da programma, ieri ho fissato l’appuntamento per pianificare il prossimo ciclo di PMA e ho contattato il Comune per avere un incontro con l’assistente sociale per iniziare la pratica per l’adozione.

E ho smesso di piangere.

In realtà vorrei piangere, ma non ci riesco più.

Sono soltanto arrabbiata e agguerrita. Io voglio avere un figlio, cazzo. Biologico, adottato o comprato al mercato nero non importa. Io voglio un figlio e l’avrò.

Sono tanto stanca.

Mia madre, ignara di tutto quello che sto passando, mi ha chiamato per parlarmi ancora del supposto tradimento di mio padre, parlando come una quindicenne gelosa, mia nonna è in un ricovero sui monti e non ho idea di come stia, mia suocera sta malissimo e forse ha un tumore, io sono da sola a casa a parlare con immaginari assistenti sociali e a rabbrividire per le prossime iniezioni, non ho nessuno con cui parlare, le persone che mi danno più conforto sono quelle che commentano questo blog, non ho amici che capiscano davvero cosa stia passando… Vorrei dire che non ce la faccio più, ma non posso dirlo, perché io devo farcela!

Domani la vita ricomincia… La solita routine, le solite incazzature, le solite pause caffé, i solito colleghi… La solita attesa per una vita migliore.

Aspetto… E mentre aspetto, faccio un po’ fatica a ridere.