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Testimonianze: la storia di Giulia e Stefano

In questi anni in cui ho scritto prima di PMA e poi di maternità mi è capitato di ricevere tante testimonianze di altre donne che hanno dovuto attraversare le mie stesse difficoltà per poter diventare madre…
Qualche sera fa ho ricevuto un’e-mail di Giulia, che ha voluto condividere con me le parole che suo marito Stefano ha usato su FB per parlare del loro percorso di fecondazione assistita…
È raro che un uomo parli liberamente di certi argomenti, per questo condivido molto volentieri con voi le sue parole… E ringrazio Giulia per avermele fatte leggere.


E voi quando lo fate un bambino?
Una domanda innocua. Fatta presumibilmente in buona fede. Che diventa una coltellata al cuore.

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Pubblicato in: maternità

Essere mamma significa sfidare i propri limiti

Quando nasce un bambino, nasce anche una mamma.
Si dice così, giusto?
Io non sono completamente d’accordo.
Quando nasce un bambino, nasce una nuova donna. Che è mamma, ma… Non solo.

Cara mamma, anche a te sarà capitato (e succederà ancora!) di arrenderti davanti a certe sfide nella vita. Di non avere più le forze di combattere. Di voler dire “basta”.

Davanti a tuo figlio, no. Questo non succede mai.
Con lui non ti arrendi. Non molli, cascasse il mondo.
Riesci a trovare energie che non credevi di possedere, risorse che mai avresti pensato di custodire dentro di te.
Un figlio ti rende forte e coraggiosa. Una donna nuova, una guerriera!

Un figlio è in grado di farti provare le emozioni più intense che proverai mai in tutta la tua vita.
Sia in positivo, che in negativo, eh!

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La mia estate

Non amo le letture estive, mi piace l’abbronzatura ma trovo insopportabile restare immobile sotto il sole per ore ed ore (e poi, con un 4enne al seguito sarebbe impossibile!).
Odio i discorsi da ombrellone, anche perché sentire della gente pontificare sull’immigrazione e sparare a zero su dei poveri cristi mentre si spalmano la crema solare o sorseggiano una birretta fresca, e magari sbagliando pure i congiuntivi, mi sembra alquanto patetico.

Non ho mai conosciuto l’estate che molti di voi hanno vissuto durante l’adolescenza. I pettegolezzi sotto l’ombrellone con le amichette del mare, le passeggiate sul lungomare alla sera e le notti spese nei locali a ballare, gli amori estivi, gli addii… Fare mille promesse con le lacrime agli occhi, sapendo che non verranno mantenute. Non so cosa sia, tutto questo.

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Pubblicato in: infertilità, Riflessioni

Cosa vuol dire essere infertili?

Oggi vorrei spiegarvi cosa significa NON poter avere figli.

Ricevere una diagnosi di infertilità è come vedersi rubare il futuro.

Immaginate di camminare tranquillamente per la strada e ritrovarvi d’un tratto, senza sapere come, senza aver mai sbagliato direzione, sull’orlo di un precipizio.

Una diagnosi di infertilità è una sentenza di infelicità.
Non appena ti senti rivolgere quelle fatidiche parole: “Mi dispiace, lei non può avere figli,” ti senti morire un poco dentro.
Una sensazione che non riuscirai mai a scrollarti di dosso. Di cui il tuo animo resterà per sempre impregnato.

Possono occorrere settimane, mesi, anni, per accettare questa sentenza, e spesso non ci si riesce neanche. Tante sono le coppie che soccombono sotto il peso di questa verità, troppo grande da sopportare, troppo faticosa da combattere.

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Le mamme che non raggiungono i propri bambini

Qualche anno fa, una donna commentò il mio blog per raccontarmi di come avesse infine, dopo una lunga battaglia, dovuto desistere dal cercare un figlio.
“Certe mamme, semplicemente, non riescono a raggiungere il proprio bambino,” scrisse.

Mi è capitato di rileggere questa frase un paio di giorni fa, e da allora non faccio altro che pensarci… E pensare a tutte le donne che non sono mai riuscite a trovare il proprio bambino. A tutte le donne che non verranno mai considerate “madri” dal resto del mondo, mentre sono state “mamme nel cuore” per tanti anni, e lo saranno per sempre, anche dopo aver rinunciato a combattere per riuscire a diventarle.

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SINDROME POST – PMA (Storia di un’infertilità)

Non mi sento una normale donna “in attesa”.

Non mi piace parlare della mia gravidanza o di tipiche questioni da donna incinta – dolori alla schiena, abiti prémaman, corsi di aquagym (nonostante abbia un gran mal di schiena, adori comprare abiti prémaman e abbia intenzione di iscrivermi in piscina).

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Le fasi del lutto

Conoscete le cinque fasi del lutto?
Santa Wikipedia mi dice che questo modello è stato elaborato dalla dottoressa Elisabeth Kübler Ross.

Le fasi sono:
1. Fase della negazione o del rifiuto
2. Fase della rabbia
3. Fase della contrattazione o del patteggiamento
4. Fase della depressione
5. Fase dell’accettazione

Sono profondamente convinta che questi siano gli stessi stadi che si trova ad affrontare una coppia dopo aver scoperto la propria sterilità.
In fondo, sempre di morte si tratta.
La morte di un sogno. La morte di una felicità che si credeva facilmente raggiungibile. La morte di un figlio concepito da due persone che si amano, così come stabilito dalla Natura.

Certo, a differenza di un lutto vero e proprio, in questo caso non tutto è perduto.
Esiste la PMA. E l’adozione.
Un figlio conquistato grazie a bombe ormonali e provette nel primo caso, sopportando la burocrazia e mille difficoltà nel secondo.
Ma, in tutti modi, qualunque sia la strada che le coppie come me e Marito decidono di intraprendere, qualcosa dentro di noi muore.

Ero certa di aver già attraversato tutte queste fasi. E di esserci riuscita egregiamente.
Evidentemente, non è così.

Credevo di trovarmi nell’ultima fase, la più serena. Quella dell’accettazione.
Credevo di aver imparato a convivere con questo “lutto”. Con la morte di un figlio naturale.
Credevo di essere diventata più paziente e calma. Che il pensiero dell’adozione mi avesse fatto scordare che sono… Diversa.

E’ così? O sto solo mentendo a me stessa?

In questo momento mi sento più nella fase della depressione. O in quella della rabbia.
Forse io, che sono sempre stata anticonformista, sto percorrendo le fasi del lutto “al contrario”.
Magari presto affermerò pure che i medici si sono sbagliati, che Marito non è veramente sterile…

In questi giorni ho pensato e urlato tanto.
Io e Marito abbiamo litigato a lungo, e trascorso diverse notti separati, chi sul divano e chi al piano di sopra, nella camera da letto (vi lascio indovinare chi ha dormito dove).

Sono stata troppo drammatica, depressa, impulsiva, nel mio ultimo post?
Probabilmente sì, ma non lo so, non ho voglia di rileggerlo.

Ho inveito tanto contro Marito in questi giorni. Soprattutto contro la sua sterilità. Come non ho mai fatto prima.
Che senso ha arrabbiarsi, ora?
Sono quasi due anni che so come stanno le cose. Perché questa rabbia improvvisa, devastante?

So di aver detto cose cattive, cose che a me non piacerebbe sentirmi dire se fossi al suo posto.
Marito non ha colpa se da piccolo ha preso gli orecchioni, se nessun dottore ha mai pensato che questo avrebbe potuto portargli dei gravi danni alla sua fertilità.
In realtà non ce l’ho con lui. Ce l’ho con il destino che mi rende sempre tutto più difficile che alle altre persone.

Ho sempre creduto che bastasse impegnarsi, lottare, per uscire da un problema.
Ma non è così. A volte, più ti sforzi, più peggiori le cose. Oppure rimani fermo.
Come imprigionato nelle sabbie mobili.

So che sono stata una stupida ad essermi lasciata deprimere da un pomeriggio trascorso insieme a bambini che non sono riuscita a conquistare.
Sono stata una stupida ad aver invidiato mio marito.
Sono stata una stupida a paragonare la maternità biologica a quella adottiva. Lo sappiamo tutti che sono due cose diverse, soprattutto all’inizio.

E’ che ho tanta paura.

Avevo paura persino a tornare qui, nel mio nido virtuale. Avevo paura di leggere i commenti al mio ultimo post. Sapevo che sarebbero stati duri, pieni di critica, di pietà.
E questo perché ero consapevole di aver scritto parole sbagliate, rabbiose.
Ho letto i vostri commenti tutto d’un fiato.

Avete detto tutto ciò che Marito non ha fatto altro che ripetermi negli ultimi giorni.
Che non è detto che un figlio naturale ami la propria madre incondizionatamente.
Che è scontato che due bambini grandicelli si trovino meglio con un giovane uomo piuttosto che con una donna.
Che sono egocentrica e ho sbagliato a decidere di fare volontariato per sentirmi amata.

Il fatto è che io non sono tanto diversa dai bambini che si trovano in comunità, con alle spalle delle famiglie disagiate.
Non ho mai superato, e forse mai supererò, la mancanza di una famiglia di riferimento nella mia vita.
L’unica differenza è che la mia situazione famigliare non è mai venuta alla luce. Non sono mai apparsa come una bambina o una ragazza disagiata.
Solo Marito, gli amici più stretti, la mia psicologa, sanno cosa ho passato. E quanto ancora questo mi faccia male.
Un’altra differenza è che io non sono più una bambina. Sono un’adulta. Da me ci si aspetta che sia saggia e riflessiva.

Ma, a volte, non ci riesco.
A volte la bambina sola e ferita che c’è in me torna alla luce.
E non riesco a metterla a tacere.
Anche se sono grande.

Mi detesto per aver dubitato sull’idea dell’adozione.
In realtà non ho avuto davvero dei dubbi. Sono e spero di essere sempre felice di aver scelto questa strada.

Ma ho paura!

Ho paura dell’ennesimo fallimento.

Ho paura di dover aspettare anni e anni.

Ho paura che il giudice non ci chiamerà mai.

Ho paura che quel bambino che tanto ho aspettato, cercato, sognato, non riesca ad amarmi.

Ho sempre pensato che l’amore fosse sufficiente per ottenere altro amore.
E se non fosse così?

L’assistente sociale, durante i colloqui, ci ha fatto capire molto bene che le coccole e l’affetto non bastano a crescere un bambino (soprattutto se adottivo, ma di certo vale anche per un figlio  biologico). Che occorre comprensione, empatia, pazienza.
Tutto questo è ben chiaro nella mia mente. E sono pronta ad affrontarlo. Sono pronta ad affrontare qualsiasi situazione. Comportamenti violenti, droga, alcool, gioco d’azzardo, cattive compagnie,  domande sull’adozione, il desiderio di ritrovare la famiglia originaria…

Tutto questo non mi fa paura.
Sono brava ad affrontare i problemi. Sia dal lato “pratico” che da quello “emozionale”.

L’unica cosa che mi fa paura è che lui, o lei, non riesca ad amarmi.
Che non mi prenda mai per mano.
Che non mi cerchi per darmi un bacio.
Che non mi preghi di leggergli/le la favola della buona notte, che non mi chieda consigli.

Che non mi veda mai come una “mamma”.

Che non voglia accettare tutto l’amore che ho da dargli.

Una volta, in un post, ho affermato che non mi importerebbe se mio figlio non volesse mai chiamarmi mamma, se preferisse chiamarmi per nome.

Beh, mentivo.
In quel momento non ne ero consapevole, sia chiaro.

Ma ora mi rendo conto che è così.
Ho il terrore di non essere mai una mamma.

Fino a ieri ho tenuto relegato questo pensiero, questo terrore, in un angolo del cuore.
Ma, dopo quello che è accaduto con quei due bambini…

Io non piaccio alla gente. Non sono mai piaciuta.
E non è per fare del facile vittimismo; è proprio così.

Gli altri non mi odiano, no. Io provoco solo… Pura e insignificante indifferenza, nella maggior parte dei casi.

Mi sono sempre sentita invisibile.

Quando ero bambina e partecipavo alle feste di compleanno, spesso mi sentivo tagliata fuori, inadatta, a disagio. Come un pesce fuor d’acqua.
Non sono mai stata brava a prendere l’iniziativa, a propormi agli altri bambini. Ero timida e avevo paura di essere cacciata via.

L’unico modo che conoscevo per attirare l’attenzione, per dire: “Ehi, ci sono anch’io! Io esisto!” era… Fuggire via. Sparire.
Assurdo, vero?

Nel bel mezzo del pomeriggio scappavo dalla casa del festeggiato di turno e mi nascondevo, sperando che qualcuno venisse a cercarmi, che qualcuno sentisse la mia mancanza, che qualcuno volesse ritrovarmi.
Il più delle volte nessuno si accorgeva della mia fuga e, dopo essere rimasta a lungo nascosta, tornavo con la coda tra le gambe.
Altre volte, invece, gli altri bambini mi venivano a cercare. Ma nessuno era felice che stessi bene.
Dicevano sempre: “Brava, ci hai rovinato la festa! E’ un’ora che ti cerchiamo!”
E così sono diventata famosa come Eva la guastafeste.

Marito dice che non è vero. Che ho tante persone che mi amano. Peccato che, quando ha provato ad elencarle, gli sia venuto in mente solo il suo stesso nome.

Secondo lui non è tanto difficile farsi amare da un bambino. Basta una battuta, uno scherzo, fare il solletico, proporre di fare qualcosa insieme…
Ma a me tutto questo non riesce. Con i bambini della comunità mi sento molto timida. Ho paura ad avvicinarmi, a meno che non siano loro a chiedermelo. E se mi allontanassero? Se mi rifiutassero?
Io, che bambina non sono mai stata, non so bene come comportarmi con loro.

So che con mio figlio sarà diverso. Perché io sarò la sua mamma, almeno sulla carta, e avrò e sentirò tutto il diritto di sgridarlo, di abbracciarlo, di prendergli la mano.

Ma se lui mi rifiutasse?

Ho sbagliato tutto.
Il vero motivo per cui ho deciso di fare volontariato in questa comunità è sbagliato. Sentirmi mamma. Che idea stupida ed egoista.

Ciò che più desidero è ricevere amore, quell’amore che ho sempre sognato.
Io sono pronta a sacrificare tutta me stessa per il bambino che arriverà. Che poi, per me non si tratterebbe di un sacrificio, ma della strada per la felicità.
Ma voglio che anche lui mi ami. Lo voglio, ma non posso pretenderlo.

Potrei non piacergli.
Potrebbe preferire Marito.

Qualcuno, nei commenti al mio ultimo post, mi ha detto che questa eventualità esiste.
Non ci avevo mai pensato.
Mi ritrovo a rifletterci solo ora.
E il pensiero mi spaventa.

Riuscirò a trattenere la rabbia, se questo dovesse accadere?
Riuscirò ad accettarlo?

E quel bambino potrebbe anche non arrivare mai.

Questa è l’ipotesi che mi fa più paura.
Perché io sono pronta a rischiare, a impegnarmi, per creare la famiglia felice che ho sempre sognato.

Voglio avere la possibilità di rischiare.
Ma ho anche il timore di non riuscire.

Sono veramente tanto stanca.
E anche in piena fase premestruale.
Piango per qualsiasi cosa. Non è proprio il momento più adatto per lasciarsi andare a riflessioni profonde, che ne pensate?

Oggi ho inveito contro una collega perché non mi ha messo in copia in un’e-mail…
E sogghignando stile ” personaggio cattivo dei cartoni animati” ho affermato di voler dare fuoco all’azienda con tutti i colleghi dentro.

Ehm, insomma… Chissà, forse questa non è veramente la “fase della depressione”. E manco quella della “rabbia”.
Forse è solo la fase “ormoni in subbuglio”.
I brufoli e le tette gonfie sembrano darmi ragione.

Speriamo che sia davvero così.

Pubblicato in: Riflessioni

La sacra famiglia

No, il titolo di questo post non si riferisce a Giuseppe, Maria e il bambin Gesù, ma rimanda alla dichiarazione fatta pochi giorni fa da Guido Barilla, di cui probabilmente avrete letto sui giornali (altrimenti l’articolo è qui).

Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale.

Non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale

E inoltre:

Nell’intervista volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all’interno della famiglia

Queste sono alcune delle frasi pronunciate dal dott. Barilla. Queste parole mi offendono, e molto, perché io sono sempre stata contraria alla discriminazioni di ogni genere.

Inoltre, ma questo non tutti sono riusciti a coglierlo, affermazioni di questo tipo non offendono soltanto gli omosessuali, ma anche le donne.

Cerchiamo di capire quale sia questa fantomatica famiglia classica che piace tanto alla Barilla e all’italiano medio…

Dalle pubblicità della suddetta azienda, ma potremmo prendere ad esempio un lo spot di un qualsiasi detersivo o cibo, e dai commenti che sento in giro e che leggo su internet, la famiglia perfetta è quella composta da un uomo e una donna e diversi figli, concepiti in maniera naturale, e ovviamente bellissimi, intelligentissimi ed educatissimi.

L’uomo e la donna, ovviamente, si sono sposati in chiesa con ricco ricevimento a cui hanno partecipato almeno cento persone.

Ovviamente la donna si sveglia prima di tutti per preparare, con il sorriso sulle labbra, una lussuosa colazione, che durerà un paio d’ore, per marito e figli. Poi l’uomo va al lavoro, mentre la donna veste, lava e poi accompagna i bambini a scuola; infine, sempre con il sorriso sulle labbra, torna a casa per spolverare e lavare i pavimenti, naturalmente senza osare sbuffare o lamentarsi.

L’apice della sua giornata viene raggiunto quando scopre un nuovo prodotto per la pulizia o quando riesce a togliere le macchie di vomito, sugo o fango dalla maglietta del bimbo.

Se invita le amiche a casa è solo perché ha organizzato la presentazione di un qualche prodotto cosmetico o per consigliare loro una nuova aspirapolvere dai poteri magici.

Quando alla sera il marito torna a casa la donna è pronta a servirgli un’ottima cena che ha preparato con le sue mani, stando ai fornelli per ore ed ore. Ovviamente il marito non tocca neppure un mestolo, non sia mai, sacrilegio!

E se il figlio adolescente vuole invitare una decina di amici a casa, a qualsiasi ora del giorno e della notte, la mamma è pronta a preparare per tutti loro un succulento spuntino. Ovviamente il figlio adolescente non sa neppure accendere il fornello. Poverino, perché dovrebbe imparare? Tanto c’è la mamma che fa tutto!

Ovviamente la mamma non ha alcun altro interesse che non sia quello di accudire marito e figli come una schiava. Non legge libri, non guarda la televisione, non esce con le amiche, non è mai stanca.

E quando viene l’ora di andare a dormire, ovviamente la donna dev’essere pronta a indossare un sexy completino intimo, a togliersi i panni della “santa” per diventare una “puttana” che deve soddisfare i bisogni del marito. Ma solo per poche ore, eh, anzi per pochi minuti, insomma finché il marito non ha raggiunto il piacere (certo, perché il rapporto sessuale finisce quando lui ha avuto l’orgasmo, le donne mica devono godere, eh, solo le donnacce provano piacere!). Poi si torna ad essere delle sante.

E, il mattino successivo, tutto ricomincia da capo.

Certo, poco importa se la donna è casalinga perché non è riuscita a trovare un lavoro e ha messo da parte le sue ambizioni, poco importa se il marito picchia lei o i figli, poco importa se i figli sono nati per caso, poco importa se si sono sposati in chiesa perché così voleva la zia Giuseppina… Poco importa se la famiglia del Mulino Bianco, in realtà, non esiste.

L’importante è che una coppia sia formata da un uomo e una donna, sposati, con tanti bambini, dove lei è felice di assecondare i bisogni di tutti i membri della famiglia, dimenticando i propri.

Mi sembra di essere tornata agli anni Cinquanta, quando una donna che a trent’anni non era sposata veniva considerata una “zitella”, quando il padre, il capofamiglia, era l’unico in casa che lavorava e dettava legge, quando il divorzio non esisteva neppure, quando fare figli non era una scelta, ma un obbligo imposto dalla società…!

Siamo nel 2013. E pare che nulla sia cambiato.

Ci crediamo tanto liberi, ma siamo ancora ancorati, imprigionati, in una mentalità ipocrita e falsa.

Mia madre ha sempre considerato la nostra come la famiglia “classica”, “tradizionale”. E, agli occhi degli altri, era proprio così. Mia madre si è sempre vantata di non essere divorziata e di essere riuscita a stare al fianco di mio padre per tanti anni. Si sono sposati in chiesa. Hanno avuto una figlia – la sottoscritta – in maniera naturale. Mia madre non ha mai lavorato con la scusa di dovermi accudire…

Se potessi parlare a tu per tu con il caro dott. Barilla , gli vorrei dire due paroline.

Gli vorrei dire che avrei preferito di gran lunga essere cresciuta con amore da una coppia gay che si vuole bene e si rispetta, piuttosto che con due persone che non sono mai state in grado di comprendermi e amarmi e che hanno sempre litigato e si sono picchiate in mia presenza. Avrei preferito avere una mamma lavoratrice in grado di insegnarmi il valore del duro lavoro, piuttosto che una finta-casalinga che non lavorava solo per pigrizia e lasciava la casa sporca come un porcile… Avrei preferito avere due genitori che non si sono mai sposati, piuttosto di due che sono sposati da tanti anni e non sono neppure venuti al matrimonio della loro unica figlia…

La mia non sarà mai la sacra famiglia tradizionale. Io e Marito ci siamo sposati in comune con solo trenta invitati, avremo un figlio che non sarà nato dal mio grembo, io continuerò a lavorare, odio stirare, non so cucire, è Marito che fa da mangiare… Eppure saremo una famiglia molto più felice di tante coppie “tradizionali” che si vedono in giro.

Quelle che hanno avuto dei figli perché lo sentivano come un obbligo verso la società, e ogni istante si pentono di averli messi al mondo, rimpiangendo i bei tempi in cui potevano divertirsi… O che magari si tradiscono a vicenda, ma non osano lasciare l’altro/a per paura delle chiacchiere dei vicini…

Ma per favore!

Famiglie con figli o senza, famiglie con figli adottivi, biologici, nati in provetta, famiglie allargate, famiglie di gay, famiglie in cui lui lavora e lei sta a casa, in cui lei lavora e lui sta a casa, ma chi se ne frega? Direi che c’è posto per tutti in questo mondo. Per le sacre famiglie come per quelle dannate. Quello che importa è l’amore e il rispetto.

Mi preoccupano di più le sacre famiglie in cui i bambini vengono picchiati o abusati piuttosto che una coppia di gay che non pretende alcun diritto se non quello di amarsi in santa pace!

Basta giudicarsi a vicenda. Basta imporre la propria visione della vita agli altri.

E basta ritenere la donna la “regina del focolare!” Se una donna vuole esserlo, bene, che lo sia pure, ma le donne che vogliono lavorare, che non sanno cucinare, che non vogliono figli, non sono da meno! Così come un uomo che cucina o spolvera o pulisce o accudisce i figli non perde valore!

Vi consiglio questi due interessanti articoli sul tema

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Pubblicato in: Adozione, La mia storia

Adozione e paure

Prima di affrontare l’argomento di questo post, voglio rispondere a due commenti.

Il primo è quello di Joanne, la quale mi fa notare che:

Spesso parli delle donne che decidono di dare in adozione un figlio come incompetenti, criminali, malate, tossicodipendenti…non è sempre così. Mia cugina è rimasta incinta a 15 anni, e ha deciso di dare il bambino in adozione. Durante la gravidanza è stata seguita da un ginecologo, ha fatto tutti gli esami necessari, ha preso l’acido folico e non ha bevuto nemmeno il caffè. E’ stata una madre, in quei nove mesi, pur sapendo che poi non lo sarebbe più stata. Quando il bambino è nato continuava a ripetere “non fatemelo tenere, anche se lo chiedo non permettetemi di prenderlo in braccio”, è stato terribile, e c’è voluta molta forza per fare quello che lei riteneva assolutamente la scelta migliore. Per questo quando sento generalizzare sulle madri biologiche dei bambini in adozione mi ribolle il sangue.

Oh beh, sapessi quante volte ribolle a me il sangue…

Prima di tutto mi sembra di non aver mai generalizzato, e di aver specificato che in molti (non TUTTI) i casi i bambini dati in adozione provengono da famiglie disagiate, sono stati abusati, maltrattati, hanno patito la fame o il freddo, ecc.
Questo mi è stato detto dall’assistente sociale, dati alla mano.
Sicuramente l’assistente sociale ne sa di più di una persona che ha conosciuto un SOLO caso.

Anch’io sono figlia di una persona schizofrenica eppure sono venuta su bene (ed è sorprendente, da quello che mi dice la mia psicologa), ma questo non toglie che nella maggior parte dei casi i figli di persone con malattie mentali presentano gravi problemi da adulti.

In secondo luogo, ammiro le persone come la cugina di Joanne, che sono riuscite a prendere la decisione più giusta per il bene del bambino, nonostante in precedenza abbia preso di certo scelte altamente sbagliate – a meno che non sia stata vittima di violenza, avere un rapporto sessuale, non protetto tra l’altro, a QUINDICI anni, quando si è poco più che bambine, non è proprio una decisione matura.
Sicuramente è stata supportata dalla famiglia nella decisione di portare avanti la gravidanza e dare in adozione il bambino, ma a quell’età non è comunque facile. Ha tutta la mia stima. E spero che il bambino abbia ora una vita serena, così come sua madre biologica.

Generalizzare non è nel mio stile, ma le statistiche sono vere e dicono quello che ho riportato io.
Poi è ovvio che ci sono le eccezioni. Ma sono, appunto, eccezioni. Punto.

Altro commento, di patalice:

come si fa?
come si fa a decidere di amare una persona che con te non c’entra nulla?
come si fa a decidere di lottare contro una burocrazia ridicola e lungaggini tediose?

(Questa commentatrice vince sia il titolo di “Miss Sensibilità” che quello di “Miss simpatia”…)

Amare una persona che con me non c’entra nulla…?

Mio figlio (perché questo sarà, anche se non nascerà dal mio ventre) c’entra tutto con me.
C’entra con la mia sofferenza, con il mio desiderio di diventare madre, con la mia vita, il mio cuore, che lui riempirà.
Lui mi permetterà di realizzare il mio sogno. Crescere ed amare una creatura che ha bisogno di qualcuno che lo prenda per mano e gli insegni la vita.

Io c’entro con la sua sofferenza.
Perché lui soffrirà, oh sì, e tanto, quando, a mano a mano che diventerà grande, scoprirà la sua storia, il suo passato.
E io allevierò il suo dolore.
Ci cureremo a vicenda.
Siamo entrambe persone che hanno bisogno di essere guarite.

Non c’entra nulla con me…?

Noi giocheremo insieme, piangeremo insieme, io lo cullerò di notte quando piangerà, io gli darò il latte, io gli racconterò le favole, io lo accompagnerò a scuola, io gli cucinerò i suoi piatti preferiti, io lo sgriderò, io gli insegnerò cosa è giusto e cosa è sbagliato…!
Non chi gli ha dato la vita, fisicamente parlando!

Lui o lei si arrabbierà con ME quando gli impedirò di vestirsi con abiti di dubbio gusto (tipo pantaloni da rapper che fanno vedere le mutande, minigonne inguinali, o qualsiasi cosa andrà di moda tra 15 – 20 anni…), mi dirà brutte parole, falsificherà la MIA firma sulle giustificazioni, mi dirà delle bugie per uscire con i suoi amici anziché studiare…
Io lo metterò in punizione, io gli spiegherò perché l’ho fatto, e lui/lei mi abbraccerà e mi chiederà scusa…
Andremo al cinema, in vacanza, a portare a spasso i cani, ovunque lui/lei voglia andare, INSIEME… Vivremo la vita INSIEME…
Il nostro futuro sarà lo stesso. Le nostre vite si intrecceranno, per sempre. Io, Marito e il nostro bambino.

Come si può dire che non c’entra nulla con me…?
Solo perché non avrà i miei occhi, il mio colore di capelli, la mia carnagione, il mio naso, o i tratti di Marito?
Conta tanto l’aspetto fisico?

E allora, a questo punto, cosa c’entra mio marito con me?
Abbiamo avuto due passati diverse, due vite diverse, finché le nostre strade non si sono incrociate e non abbiamo deciso di unirle per sempre.

Spesso un figlio “di pancia” non è una scelta. E’ un errore (ops), una cosa che ti capita senza volerlo, un incidente di percorso…  Non è stato cercato, desiderato…

Un figlio adottivo è una scelta. Viene cercato, desiderato, con tutto il cuore, da persone che veramente lo vogliono. Che lo vogliono amare, guarire, che gli vogliono donare un domani. Che vogliono coronare il proprio amore. E a cui della genetica non importa un fico secco, perché considerano l’AMORE più importante.

A fare sesso e concepire un bambino sono buoni tutti. A fare la madre e il padre, solo chi veramente lo desidera ne è in grado.

E la burocrazia.. La burocrazia è lunga, ma non ridicola.
Pensavo anch’io che la fosse, ma non è così. Solo chi ci è passato può capirlo.
Il corso, i colloquio con i servizi sociali, tutto è stato utile.
E’ stato utile per il nostro bambino, perché così avrà due genitori preparati a crescerlo, è stato utile per noi, perché siamo maturati come persone.

I tempi del tribunale sono lunghi semplicemente perché in Italia ci sono pochi bambini adottabili rispetto alle coppie che si propongono.

E questo non possiamo cambiarlo, ma solo accettarlo.

Mi sembra di sprecare energie scrivendo queste parole, perché tanto so che, chi non vuol capire, chi non ha interesse a capire, non capirà mai.
E va bene così.
L’adozione non è per tutti.

E l’amore, in fondo, non si può spiegare.
C’è chi ha un cuore grande, chi un cuore piccolo, chi proprio non ce l’ha.

Ed ora passiamo a quello di cui volevo veramente parlare.

Come promesso, in questo post affronteremo un argomento molto importante per tutte le coppie che stanno pensando di intraprendere il cammino dell’adozione.
Le paure.

Quali sono le paure che accomunano tutti gli aspiranti genitori adottivi?
Per esperienza personale, e dopo essermi confrontata con altre coppie, sono giunta alla conclusione che i timori più frequenti sono:

– Che i servizi sociali non giudichino la coppia idonea
– Che il bambino sia malato
– Che un giorno decida di trovare le sue origini
– Che non riconosca mai i propri genitori adottivi come la sua mamma e il suo papà
– Il giudizio degli altri

Forse non l’avrete notato subito, ma c’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo.
Tutte queste paure sono riferite alla coppia, e non al bambino bisognoso di una famiglia.
E questo è un modo errato di pensare. Anch’io ho impiegato un po’ di tempo a capirlo, ma alla fine ce l’ho fatta.

Abbiamo paura che i servizi sociali non scrivano una relazione positiva perché non vogliamo rischiare che ci venga impedito di realizzare il nostro sogno più grande, non vogliamo che il bambino sia malato perché dopo aver sofferto tanto per “ottenerlo”, ecchecavolo, vogliamo che almeno sia sano come un pesce, speriamo che non desideri mai rintracciare la sua famiglia biologica perché lui è nostro, e soltanto nostro, e temiamo il giudizio degli altri perché vorremmo che il nostro figlio di cuore sembrasse anche nostro figlio di pancia, e non vogliamo dover rispondere ad insulse domande.

Non mentiamo. Il desiderio di adottare nasce, nella maggior parte dei casi, dall’egoismo di una coppia, dal desiderio di avere un figlio anche quando Madre Natura ci è avversa. Non è che ci sottoponiamo ad analisi psicologiche, affrontiamo corsi, burocrazia, tribunali, solo per altruismo o per bontà…
Ma questo è probabilmente l’egoismo più bello che ci sia.

Anch’io ho avuto (e ho) tutte queste paure, certo. E pure Marito.
Ma ho capito che stiamo guardando la situazione dal punto di vista sbagliato.
La parte debole NON siamo noi.

Tutta la sofferenza che abbiamo patito a causa dello scherzetto di Madre Natura non è nulla in confronto al dolore di un bambino che è stato abbandonato o, peggio ancora, maltrattato o abusato.
La parte debole è LUI. Non noi.

Nella maggior parte dei casi, se i servizi sociali non giudicano la coppia idonea, significa che è davvero così. Significa che la coppia in questione non è abbastanza preparata, o matura, per affrontare questo percorso. Ed in questo caso è meglio che gli aspiranti genitori riflettano prima di riprendere il cammino.
Alla coppia questo può sembrare ingiusto, verso di loro, ma è la cosa più giusta da fare per il loro futuro bambino.
(Ovviamente escludo i casi in cui gli assistenti sociali sono degli incapaci, o prendono in antipatia la coppia, ecc ecc… Fortunatamente, da quello che ho letto mi pare che non accada spesso).

Eventuali malattie del bambino. Di questo ho già parlato. Alla coppia viene data ampia libertà di scelta riguardo alle malattie, ma è ovvio che non bisogna essere troppo rigidi.
Io e Marito non abbiamo dato la disponibilità per le malattie gravi perché non ci sentiamo in grado di affrontarle, ma non abbiamo problemi riguardo malattie “minori”.
Un bambino dato in adozione non può essere un bambino completamente sano, né da un punto di vista fisico, né mentale. Non è possibile.
Spesso i bambini vengono abbandonati proprio perché hanno dei “difetti” (da quello che ci ha detto l’assistente sociale, questo accade soprattutto tra i rom). E come può non avere problemi un bambino che magari è stato picchiato, o abusato sessualmente, o anche soltanto abbandonato in ospedale dalla propria madre? Voi come stareste, al suo posto?
Magari il bambino sarà tranquillissimo, riuscirà ad elaborare tutto quanto grazie al vostro amore. Ma questa è un’eventualità remota.
Molto più probabilmente da bambino avrà atteggiamenti aggressivi verso i genitori e verso i suoi coetanei, e da adolescente manifesterà il suo disagio in un qualche modo, che sia la solitudine o atteggiamenti eccessivi (droga, alcool, gioco d’azzardo…).
Un genitore adottivo deve essere pronto a tutto questo. E deve mettersi nei panni di suo figlio. Empatia è la parola d’ordine.
Ovviamente non si può essere pronti a tutto. Le situazioni vanno affrontate una volta che si presentano, anche perché non si può sapere in anticipo come si comporterà da grande un bambino adottato!

Ma bisogna sapere che, prima o poi, in un modo o nell’altro, manifesterà un disagio (come tutti gli adolescenti, d’altronde).

La ricerca delle origini. Un sogno per il bambino adottato, un incubo per i suoi genitori “di cuore”.

In tutte le famiglie occorre parlare, ma quando è presente un bambino adottato bisogna parlare ancora di più.
Occorre spronare fin da piccolo il bambino a parlare di sé, aiutarlo ad elaborare i ricordi, a capire cosa gli è successo, ovviamente con parole adatte per la sua età.
Parlare, parlare, parlare. E spingerlo a esprimere le sue emozioni. Solo così lo si può aiutare a superare il trauma per quello che gli è successo.

Mi è rimasta impressa una conversazione che ho avuto con un signore presente al corso per l’adozione.
Questo signore ha un fratello che ha adottato un bambino da un Paese dell’Est Europa. Il bambino rifiuta totalmente le sue origini, non vuole neppure sentir nominare il suo Paese, e i suoi genitori adottivi sono contenti così.
Il signore in questione mi ha confidato che spera che anche il suo futuro bambino si comporti in questo modo.
Ecco, questo è un atteggiamento COMPLETAMENTE SBAGLIATO.
Se un bambino adottato esprime tanto astio verso la sua terra natia, significa che c’è un problema. E grosso, anche.
Una rabbia repressa che prima o poi esprimerà, magari in un modo malsano.

Noi stiamo puntando sull’adozione nazionale, per ora, ma questo non vuol dire che nostro figlio sarà italiano. Potremmo benissimo essere abbinati ad un bambino straniero abbandonato qui in Italia.
Se dovesse essere di un’etnia diversa dalla nostra (rom, africano, ecc.), noi cercheremo in tutti i modi di mantenere vivo il legame con la sua terra, imparando le usanze, anche un po’ di lingua, le ricette… E questo sarebbe un grande arricchimento anche per noi!

Un giorno nostro figlio potrebbe decidere di fare delle ricerche per ritrovare i suoi genitori naturali. In Italia la legge impone che il figlio adottivo abbia compiuto 25 anni prima di poter accedere agli atti che lo riguardano presso il tribunale.
Mi auguro che, quando avrà 25 anni, mio figlio sarà maturo e in grado di fare scelte consapevoli.
Ovviamente saprà già tutto, da me e Marito, riguardo al suo passato, o almeno quello che saremo in grado di dirgli.

Questa eventualità non mi fa paura.
Io sono certa che sarò una buona madre, e che lui, o lei, mi amerà.
E capisco anche il desiderio di cercare le proprie origini. Mi auguro che, quando deciderà di partire verso il suo Paese, o deciderà di andare alla ricerca di sua madre o suo padre biologici, che sia qui in Italia o altrove, lui mi chieda di accompagnarlo.
Sarebbe il regalo più bello che potrebbe farmi. La sua FIDUCIA.

Se io venissi abbandonata, o tolta dalla mia famiglia, penso che farei lo stesso. Ad un certo punto sentirei il bisogno di rintracciare le mie origini. Ma questo non vuol dire che scorderei chi mi ha dato LA VITA, la gioia, il futuro, l’amore.
E se poi volesse mantenere i contatti con sua madre o suo padre naturali… Beh, il cuore non ha confini. In un cuore c’è posto per tutti.
Ma so anche che è difficile che un bambino adottato possa un giorno avere quattro genitori… Perché, purtroppo, ripeto, SPESSO i motivi per cui questi bambini vengono abbandonati o tolti alle proprie famiglie sono veramente ORRIBILI.
Dubito altamente che un bambino che è stato abusato desideri ritrovare la madre naturale, o che riesca ad instaurare con lei un rapporto sano. E dubito anche che una “madre” del genere possa essere interessata a recuperare il rapporto con il frutto del suo grembo (frutto indesiderato e odiato, in molti casi).
L’eventualità, comunque, esiste. E non mi fa paura.

E non ho paura neanche della possibilità che mio figlio non mi chiami mai “mamma”, o che non chiami mio marito “papà”.
Parlando con altri genitori adottivi, ho scoperto che, contrariamente a quanto pensavo, i bambini adottati si abituano velocemente al nuovo ambiente, alla nuova famiglia. E impiegano poche settimane, a volte pochi giorni, per cominciare a chiamare lei “mamma” e lui “papà”.
Io amerò mio figlio con tutta me stessa. Ma se non riuscirà a chiamarmi “mamma” e vorrà chiamarmi per nome, va bene lo stesso. Lo capirò, lo accetterò.
Ma, sinceramente, dubito che questo possa accadere. Sia perché a noi verrà dato un bambino molto piccolo (entro i 3 anni) e sappiamo tutti che i bambini, più piccoli sono, più si abituano velocemente ai cambiamenti… Sia perché, con tutto l’amore che gli darò, gli verrà naturale chiamarmi “mamma”.
Non subito, forse. Ma, quando lo farà per la prima volta… Quello sarà il momento più bello della mia vita.

Il giudizio degli altri.

Io ho un problema. Che è anche una virtù, ma più spesso un problema.
Sono estremamente sensibile.
Cerco sempre di atteggiarmi da cinica, di fingere che l’opinione altrui non mi interessi, ma la verità è che quando qualcuno, che sia un conoscente o un amico poco importa, dice qualcosa di brutto nei miei confronti, io non riesco a rimanere indifferente. Ci sto male.

Quando una coppia adotta un bambino, le reazioni della gente che incontriamo quotidianamente può essere di due tipi: stupore positivo, o stupore negativo.
L’adozione non viene ancora considerata un fatto normale.
Le persone che sanno che vostro figlio è stato adottato lo guarderanno e vi guarderanno sempre in maniera diversa, un misto tra elogio e compassione.
Mentre tutto quello che noi vorremmo è essere considerati “normali”.
Normali non li saremo mai. Fateci l’abitudine.

Quando ho confidato al mio capo nucleo che ho intenzione di adottare un bambino, lui ha sgranato gli occhi e mi ha detto: “Tu e tuo marito avete proprio un grande cuore!”
No, non abbiamo un grande cuore.
Abbiamo solo un grande desiderio di avere un famiglia.
Se potessimo avere figli, non adotteremmo. O forse sì, ma dopo aver avuto un figlio naturale.
Non siamo dei santi, io non sono Madre Teresa di Calcutta e Marito non è Padre Pio.
Siamo solo due sfigati che cercano la strada per la felicità.

Ma non ho detto niente di tutto questo, e mi sono limitata a sorridere.

Non ho un grande cuore. Ho tanta voglia di essere mamma. E tanta sofferenza dentro di me.
Ma, chissà, forse questo vuol proprio dire avere un grande cuore. Altrimenti, come potrei contenere dentro di me tutto questo?

Anche se è stato superficiale, il mio capo ha detto una cosa bella, politically correct, per lo meno.

Ma non tutti sono come lui.

Purtroppo sono circondata da molte persone immature, ignoranti e talvolta anche un po’ maligne.

C’è chi mi ha detto, ridendo, che, se ci dessero in adozione un bambino grande, potrebbe diventare il mio amante, oltre che mio figlio…!!

Chi mi ha ricordato, con una malignità incredibile, che i bambini adottati vanno sempre alla ricerca dei genitori “veri”, prima o poi…

Che poi, oltre alla cattiveria, è anche l’ignoranza a sconvolgermi.

Ma queste persone sanno che nella maggior parte dei casi i bambini adottati sono stati maltrattati, abusati sessualmente, o figli di genitori psicopatici?
Voi vorreste rintracciare una madre o un padre che vi hanno violentato da neonati? Sì, questo orrori succedono, e spesso anche. Quando l’assistente sociale me l’ha detto sono rimasta a bocca aperta.
I casi come quello della cugina di Joanne sono rari. Esistono, ma sono rari, almeno qui in Italia (oh, devo continuare a specificarlo, non vorrei essere additata di nuovo come quella che fa di tutta l’erba un fascio…).

Quello che avrei voluto rispondere, in realtà, ma non ne ho trovato la forza perché mi mancava il fiato, è: “Certo, può essere che un figlio adottivo senta prima o poi il bisogno di ritrovare le sue origini. Per questo l’adozione non è per tutti. Per questo solo una persona forte come me può affrontarla.”

E poi ci sono gli amici e i parenti. Che non sempre parlano per il tuo bene. Che a volte aprono la bocca a sproposito, senza mettersi nei tuoi panni, ma pensando solo a se stessi. Empatia è una parola sconosciuta alla maggior parte delle persone, anche a quelle a cui vogliamo bene. Ma con loro è difficile arrabbiarsi, e spesso ci tocca mandar giù bocconi molto amari.

Quando ho iniziato il corso informativo per l’adozione ne ho parlato a lungo con due miei colleghi-amici di cui mi fido, entrambi sui cinquant’anni. Sono persone mature che mi vogliono bene, mi trattano un po’ come una figlia, ma, sia a causa delle loro vicissitudini personali che per la loro età, faticano a capire le mie scelte.
Ai loro tempi nessuno si sottoponeva alla PMA, non era ancora una pratica diffusa. Faticano a mettersi nei miei panni e capire il mio desiderio di maternità, che per loro sembra un’ossessione.
Quando ho detto loro che al corso erano presenti diverse coppie della loro età, o poco più giovani, lei ha strabuzzato gli occhi e, rivolta all’altro collega, ha esclamato:

“Gente della nostra età?! Oddio, ti immagini dover andare ad un corso, e fare tutte quelle cose lì? Ma chi ne ha la voglia? Quelli sono pazzi!”

No, non sono pazzi.
Loro desiderano un figlio, e tu no.
Questa è la differenza.
E questa “piccola” differenza cambia tutto. Questa piccola differenza dona loro una forza che voi non potrete mai avere.
Ho provato a dirglielo, ma non credo abbiano capito.

Qualche mese fa ho parlato per la prima volta di adozione con una mia amica, la solita amica di cui a volte parlo, poco più che trentenne, mamma di un bimbo di un anno concepito con il primo rapporto non protetto con suo marito.
(Alla faccia degli spermatozoi).

Nel suo caso, la reazione è stata assolutamente normale. Non indifferente, ma normale, come se la avessi confidato che avevo intenzione di comprare un vestito nuovo.
“Non vuoi più fare la PMA? Ora vi concentrate solo sull’adozione? Ma sì, fate bene!”
Non è che io sia incontentabile, eh.
Ok, voglio essere trattata come una persona “normale”, ma… Cazzo, non ti ho detto “ora vado in centro a fare shopping”. Ti ho detto che ho rinunciato per sempre all’idea di concepire un figlio naturale e che intendo farmi psicanalizzare, studiare, da degli estranei, andare in giro per tribunali, attendere, se va bene, qualche anno per avere un figlio che tu hai avuto con UN RAPPORTO SESSUALE, UNO!

Non voglio essere vista come una Madonna né come una sfigata, ma almeno fingere interesse, fare qualche domanda, insomma…

Ma il massimo è stato quando ho parlato con mia nonna paterna dell’adozione.
Lei è l’unico membro della mia famiglia con cui io abbia un vero e proprio rapporto. Le racconto cosa succede nella mia vita, le mie paure, le mie speranze.
Quando le ho parlato della PMA, all’inizio ci è rimasta male, sia perché non si aspettava che io e Marito avessimo problemi simili, sia perché certe pratiche mediche per lei sono una novità. Ma si è abituata presto all’idea, e in poche settimane ha iniziato lei stessa a consigliarmi degli ospedali a cui rivolgermi!

La sua reazione è stata più o meno la stessa con la notizia dell’adozione.
Quando le ho detto di aver deciso di smetterla con la PMA e che io e Marito avevamo già iniziato le pratiche per adottare un bambino, lei ha esclamato:

“Eh? Ma perché? Subito? Non potete aspettare ancora un po’? Magari arriva, un bambino! Ma perché non provi di nuovo con la fecondazione? Mi hanno appena consigliato un nuovo ospedale…”

La sua reazione mi ha fatto male. A lei non importava nulla di me. Non mi ha chiesto perché avessi preso quella decisione. Voleva solo che facessi come voleva lei.
Ho capito che in questi casi bisogna mostrarsi duri e determinati, per far capire alle persone che ci circondano che sì, siamo sicuri della nostra scelta e no, non accettiamo consigli, perché nessuno, a meno che non si tratti di qualcuno che ha vissuto lo stesso dolore, può dirci cosa fare.

“No, nonna. Sono quasi quattro anni che proviamo ad avere un bambino. Non possiamo averlo, non riusciamo, anche se aspettiamo mille anni. E la fecondazione non la voglio più fare. In fondo è il mio corpo che ci va di mezzo, non il tuo. Sono io a scegliere. E non vogliamo aspettare per l’adozione. NOI SIAMO FELICI COSI’. Il nome di quell’ospedale non mi interessa.”

NOI SIAMO FELICI COSI’.
Ma a qualcuno importa?
Alla gente importa solo puntare il dito, dare consigli non richiesti, senza ascoltare le parole e le emozioni di chi sta dall’altra parte, di chi sta realmente vivendo quella sofferenza.

Mi sono resa conto che la gente è molto egoista. E, al contrario di quello che porta alla scelta di adottare, questo è un egoismo negativo.
L’amica è talmente concentrata sul suo bambino da non vedere nient’altro, gli amici che non vogliono figli non si sforzano di capire, la nonna ha paura di ritrovarsi un pronipote che non le assomiglia, i colleghi cercano il gossip…

Non c’è nessuno, e dico nessuno, che mi abbia chiesto: “Ma tu, sei felice? Come lo immagini il tuo futuro? Sei dispiaciuta di aver rinunciato ad un bambino di pancia? Sei sicura della tua scelta? Se sei sicura, io sono felice per te e ti sosterrò. C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?”

Questo vorrei sentire.

Alle battutine, all’ignoranza, alla superficialità, mi dovrò abituare.
Ma, soprattutto, dovrò imparare a rispondere per le rime, senza arrabbiarmi, ma con eleganza ed ironia.

Perché siamo solo all’inizio.

E devo imparare anche perché un giorno dovrò insegnare a mio figlio come replicare alle stesse domande.

Pubblicato in: La mia storia

Verde speranza

Quante cose da raccontare. Quante emozioni, quanta paura, quanta confusione, quanta speranza.

Speranza è la parola chiave nella mia vita, ora.

Ed è di color verde speranza che, pian piano, stiamo dipingendo la camera del nostro bimbo (sì, mi piace mettere le mani avanti – Marito teme che voglia iniziare a sfogliare i cataloghi delle università…).

La settimana scorsa mi sono concessa, in occasione del mio compleanno, una vacanza da sola di qualche giorno. Sono andata a trovare una mia amica e insieme siamo andate al concerto del nostro cantante preferito. Dieci ore in coda sotto al sole… Ma ne è valsa la pena. Mi sono sentita ringiovanita. La stessa pazzia l’abbiamo compiuta esattamente dieci anni fa, per lo stesso cantante. Quell’evento aveva rappresentato una specie di spartiacque nella mia vita. Io, che sono tanto cinica ma anche tanto romantica, non posso che sperare che anche stavolta avvenga lo stesso…

E poi… Squilli di tromba, please

Ieri io e Marito abbiamo affrontato l’ultimo colloquio con i servizi sociali! Manca soltanto la visita domiciliare, che abbiamo fissato per la settimana prossima, e poi finalmente avremo terminato la fase dell’istruttoria.

Non amo particolarmente parlare di burocrazia, preferirei concentrarmi sulle emozioni. Visto, però, che su internet sono poche le coppie che parlano approfonditamente del percorso adozione e vorrei che questo blog fosse utile per chi è alla ricerca di informazioni… Farò uno strappo alla regola.

Le regole cambiano un po’ da regione a regione, perciò ovviamente io spiegherò come funzionano le cose da noi, in Emilia Romagna.

Una volta terminata la fase dell’istruttoria (composta ad un certo numero di colloqui, a discrezione dei servizi sociali, e della visita domiciliare) i servizi scrivono una relazione, che viene in seguito letta e sottoscritta dalla coppia. A noi verrà letta a fine agosto, quindi circa un mesetto dopo la fine dei colloqui, ma la tempistica può variare in base al periodo e agli impegni degli assistenti sociali.

Una volta firmata la relazione, essa viene inviata dai servizi sociali al Tribunale dei Minorenni di competenza, nel nostro caso quello di Bologna.

Dovremo aspettare di ricevere dal Comune un attestato in cui è dichiarato che abbiamo terminato la fase dell’istruttoria, e solo allora potremo presentare domanda di adozione presso il nostro Tribunale di competenza ed eventualmente, se lo vogliamo, anche presso altri tribunali (io penso che lo invieremo a tutti i tribunali d’Italia…).

La domanda può essere inviata online, ma deve essere spedita anche in via cartacea (strano, lo so) e non ci sono bolli da pagare. Dev’essere corredata da una serie di documenti, tra cui uno dove la coppia riassume i propri dati (tra i quali anche la “composizione” dell’abitazione) e la propria disponibilità (età del bambino, preferenze di etnia, malattie accettate, ecc.) Questo documento può essere scaricato dai siti dei vari tribunali, ma i servizi sociali ce ne hanno già data una copia.

Se la coppia è sposata da meno di tre anni, come noi, può presentare domanda a patto che conviva da almeno tre anni. Bisogna avere pronti due testimoni (uno può essere il marito o la moglie, l’altro un parente o un estraneo) perché in certi casi il tribunale chiede che vadano a depositare una dichiarazione giurata in cui affermano che la coppia ha effettivamente convissuto a partire dalla tal data…

Inoltre alla richiesta di adozione bisogna allegare un documento (anche questo scaricabile da internet) in cui i genitori di entrambi i coniugi dichiarano il loro consenso all’adozione. Bisogna anche allegare la copia di un documento di identità dei genitori. Per me questa, come ho già detto in passato, è una cosa assurda, ma è la legge italiana… E dobbiamo accettarla (sopportarla).

In seguito, il giudice del tribunale di competenza chiama la coppia per un colloquio conoscitivo (a Bologna i tempi medi sono di tre mesi dalla deposizione della richiesta).

Poi l’iter cambia se si intende proseguire con l’adozione nazionale, l’internazionale o entrambe.

Nel caso di adozione nazionale la domanda resta valida per tre anni, e il giudice contatta la coppia quando riceve la pratica di un bambino adottabile per il quale ritiene la coppia adatta. Attenzione, però, perché il bambino non viene proposto solo ad una coppia, ma a diverse… Sarà poi il giudice a decidere, dopo un colloquio, quale è la più adatta (il colloquio è una specie di “provino”, insomma).

L’assistente sociale ci ha detto che per la nazionale è facile essere chiamati dal giudice entro il primo anno dalla deposizione della domanda (quando il colloquio fatto con il giudice è “fresco” e si ricorda della coppia) oppure verso la fine dei tre anni, quando le domande in scadenza vengono riviste.

Nel caso di adozione internazionale il tribunale emette un decreto di idoneità, che la coppia deve presentare all’ente autorizzato attraverso il quale ha intenzione di procedere con il percorso adottivo.

La lista degli enti autorizzati si trova qui.

Si può anche procedere con entrambi i percorsi contemporaneamente, ma bisogna stare attenti perché alcuni enti chiedono la rinuncia alla nazionale quando si da loro l’incarico, mentre invece altri, ma sono pochi, permettono di continuare con l’adozione nazionale fino al momento dell’abbinamento con un bambino straniero.

E ora che abbiamo parlato di burocrazia… Parliamo di altro.

La fase dell’istruttoria, i colloqui con i servizi sociali per intenderci, è quella che di solito fa più paura agli aspiranti genitori adottivi. Anche io ero molto timorosa, ma devo dire che è andata bene. Non è stata sicuramente una passeggiata, e di certo dipende dall’assistente sociale e dallo psicologo che ti capita, ma… E’ andata bene.

Finora credo di aver parlato soltanto dei primissimi colloqui che abbiamo sostenuto con i servizi. Abbiamo iniziato facendo una chiacchierata generale, poi sia io che Marito abbiamo parlato della nostra vita, dall’infanzia all’età adulta (rapporto con i genitori, amici, scuola, lavoro, ambizioni…).

In seguito ci è stato chiesto di raccontare il nostro incontro, come ci siamo innamorati e cosa ci piace l’uno dell’altra. E qui abbiamo fatto ridere sia l’assistente sociale che la psicologa, perché il nostro incontro è stato decisamente divertente!

Nei colloqui successivi abbiamo parlato della decisione di avere un bambino, della scoperta della sterilità, del “lutto biologico” e della scelta adottiva. E’ stata la fase più difficile, ma anche la più liberatoria.

L’assistente sociale la settimana scorsa ci ha addirittura assegnato un “compito”… Voleva che io e Marito preparassimo qualcosa, una specie di regalo, fatto con le nostre mani, per il futuro bimbo, dove dovevamo descrivere il nostro passato, il presente e il futuro.

Marito ha realizzato un video, molto commovente, ispirandosi al film “La ricerca della felicità”, il famoso e bellissimo film con Will Smith.

Io, invece, ho fatto un collage di foto, su un cartellone a forma di cuore, che è piaciuto molto!

Infine, negli ultimi due colloqui, ci siamo concentrati sulle nostre aspettative di genitori adottivi, sul bimbo “immaginario”, sulle paure e la disponibilità.

Già, la disponibilità… Ci sarebbe da parlare ore ed ore solo su questo.

Io sono entrata nel mondo dell’adozione già abbastanza preparata e informata (quante giornate passate su internet ad imparare le leggi a memoria!) ma mi sono resa conto che sono tante, tantissime, le cose che ignoravo.

La coppia non deve soltanto scegliere tra adozione nazionale o internazionale e l’età del bambino, o accettare l’eventuale presenza di malattie gravi oppure reversibili; i servizi sociali ci hanno messo di fronte a tutta una serie di decisioni alle quali sinceramente non avevo mai pensato.

L’assistente sociale ci ha spinto a proporci, almeno inizialmente, solo per l’adozione nazionale, visto che è quella su cui “puntiamo” maggiormente. Ci ha consigliato di aspettare un anno, e poi, eventualmente, chiedere al Tribunale il decreto di idoneità per quella internazionale.

Per quanto riguarda l’età noi volevamo dare la disponibilità per la fascia 0-5 ma, visto che non è possibile (si può dare la disponibilità per bambini fino a tre anni, oppure fino ai sei anni) e visto che siamo abbastanza giovani, è stata proprio l’assistente sociale a consigliarci di proporci per bambini fino a tre anni. Ci ha anche detto che abbiamo buone possibilità di essere abbinati ad un neonato, ma sinceramente questo per me non ha più tanta importanza.

Poi c’è il discorso “etnia”… Anche se si tratta di adozione nazionale non significa, come in molti credono, che sicuramente verrai abbinato ad un bambino italiano, anzi! Molto spesso possono capitare bambini di colore, oppure rom, o di altre etnie. L’assistente ci ha chiesto se avremmo dei problemi ad accogliere un bambino di un’etnia diversa dalla nostra, che magari in futuro deciderà di seguire una religione a noi estranea (ma noi non siamo di certo cattolici invasati, quindi… Chi se ne frega!).

Per noi l’aspetto “etnia” è assolutamente irrilevante, e comunque sono sicura che questa fosse una domanda abbastanza “retorica”… Di certo una coppia che afferma di volere solo e soltanto un bimbo bianco, ariano e magari pure dal sangue blu non può ricevere una relazione molto positiva!

Abbiamo anche parlato del discorso malattie, che io, ingenuamente, pensavo fosse il più semplice da affrontare. Credevo che la scelta fosse soltanto tra malattie gravi (come sindrome di Down, ad esempio, oppure cecità o sordità), o malattie reversibili (miopia, strabismo, difficoltà nel linguaggio). Invece le cose non stanno proprio così.

Inizialmente la scelta che ci hanno chiesto di fare verteva proprio su questo; io e Marito, che ne avevamo già parlato tra di noi, ci siamo detti disponibili ad accogliere un bambino con una malattia curabile, perché non ci sentiamo in grado di gestire malattie gravi, anche per mancanza di tempo, visto che per sopravvivere dobbiamo lavorare entrambi.

Pensavo che il discorso fosse chiuso qui… E invece l’assistente ci ha messo di fronte a tutta un’altra serie di scelte, alle quali non siamo riusciti a rispondere subito, con mio grande disappunto (pensavo di essermi preparata bene – ho l’animo da prima della classe!)

Purtroppo esistono alcune malattie che non possono essere diagnosticate alla nascita, ma che si manifestano più avanti con l’età, magari addirittura da adulti.

Classico esempio: le malattie psichiatriche.

“Accettereste un bambino che è nato da una madre malata, che so, di schizofrenia?”

E che cavolo, proprio una della malattie più gravi doveva prendere come esempio?

Sfortunatamente i medici non sono ancora riusciti a capire quanto queste malattie siano influenzate dalla genetica e quanto dall’ambiente in cui una persona vive e cresce.

Dopo essermi confrontata con la mia psicologa, però, ho scoperto che ci sono alcune malattie, e la schizofrenia è tra queste, che sono ad alta trasmissione genetica, e per le quali l’ambiente riveste un’importanza minima.

Durante il colloquio successivo abbiamo parlato a lungo della nostra paura di correre questo rischio… E l’assistente sociale per fortuna l’ha capito, e non credo che ci abbia considerato male per questo. Anzi. La sincerità paga (quasi sempre). Se adottassimo un bambino figlio di una donna schizofrenica, ansiosa come sono, passerei tutto il tempo ad osservare e analizzare ogni suo comportamento, per capire se anche lui manifesta dei sintomi di questa malattia… Questo non è auspicabile né per me, né per lui. E sarei costantemente ossessionata dal pensiero che, indipendentemente dall’amore che posso dargli, un giorno mio figlio potrebbe “impazzire”… Non riuscirei a sopportarlo.

Ci è stato anche chiesto se siamo disponibili ad adottare il figlio di una donna sieropositiva. Solitamente questi bambini risultano positivi al test per diverso tempo, magari anche un anno, ma di solito in seguito si negativizzano (non è alta la percentuale di trasmissione dell’HIV da madre a figlio). Di solito. Potrebbe anche essere che il bambino sia davvero malato.

Ho esitato molto davanti a questa scelta. Stavo quasi per dire che ero disponibile ad accettare il rischio, ma… Non sono solo io a decidere. E Marito non ne voleva sapere. Così abbiamo detto di no.

L’assistente sociale ci ha parlato anche dei bambini nati prematuramente, e dei rischi che ne conseguono. I bambini nati prima del tempo rischiano di avere delle malformazioni o delle malattie.

In questo caso ci siamo detti disponibili ad accettare il rischio, anche perché i parti prematuri si verificano spesso (nella maggior parte dei casi si tratta di donne che non si sono curate durante la gravidanza).

A parte le malattie, abbiamo anche parlato della disponibilità riguardo il “passato” del bambino. Sinceramente non credevo che ci fosse un’opzione a riguardo. Insomma, quando si adotta si da per scontato che il bambino venga da un passato difficile, no?

L’assistente ci ha chiesto se siamo disponibili ad adottare un bimbo che ha subito abusi sessuali (purtroppo a volte avvengono anche su bambini molto piccoli), con tutti i traumi che ne conseguono. Questo è considerato il caso più grave. Poi ci sono anche bambini che hanno patito la fame, che sono stati picchiati, che sono vissuti in un ambiente malsano sotto tutti i punti di vista…

Non avevo mai pensato di mettere dei “paletti” su questo, perciò ovviamente abbiamo detto che non c’è problema. Affronteremo tutte le difficoltà, tutti i traumi, tutti i ricordi dolorosi, insieme a lui.

A dire il vero tutte queste domande mi hanno lasciata spiazzata. Da un certo punto di vista ero grata di poter esprimere una “scelta”, per evitare di trovarmi in futuro a gestire una situazione che non sono in grado di affrontare, da un altro non mi piaceva l’idea di dover mettere tutti questi “paletti”. Insomma, stiamo adottando un bambino, non siamo mica dal macellaio a scegliere il pezzo di carne migliore…

L’assistente sociale ha compreso appieno le mie perplessità, ma ci ha anche fatto capire che è necessario riflettere su questi aspetti, in modo da essere abbinati al bambino per il quale siamo più adatti.

Io ho capito che è meglio essere sinceri subito… E’ da stupidi rispondere “sì” a tutto, per poi ritrovarsi a dover dire di no al giudice quando ti chiama per proporti un bambino sieropositivo, capendo di non avere la forza per crescerlo!

C’è anche un’altra cosa importante da capire, però…

Chi adotta deve comprendere che adozione significa accoglienza. Se un bambino viene tolto dalla sua famiglia d’origine significa che c’è un grave motivo. Maltrattamenti, abusi sessuali, povertà, sono all’ordine del giorno. Molte donne che rimangono incinta senza desiderarlo, ma decidono di non abortire (per motivi religiosi, pressioni dei genitori, ignoranza), si trascurano durante la gravidanza… Bevono, fumano, assumono droghe… E magari vengono picchiate!

Non si può pretendere di adottare un bambino bello, felice e sano. Non è così. Non può essere così. Ed è anche questo il “bello” dell’adozione. Restituire (o provare a restituire) la dignità, la felicità, ad un bambino che già quando si trovava nell’utero materno (il luogo più sicuro del mondo, in teoria) ha conosciuto solo dolore.

Ammetto che l’assistente sociale ci ha messo un po’ di paura, ma questa è una cosa buona, perché la paura ti spinge a riflettere, a prepararti, a capire. Ovviamente non possiamo essere pronti a tutte le situazioni, non possiamo sapere come sarà il bimbo che arriverà e cosa avrà patito, ma sappiamo che, qualsiasi sia il suo dolore, dovremo affrontarlo. E ci sentiamo pronti a guarirlo.

Oltre a metterci paura, però, devo dire che ci ha anche dato un po’ di speranza. Dalle parole dell’assistente sociale e della psicologa ho capito che scriveranno una bella relazione su di noi, è questo è fondamentale per fare sì che il giudice ci tenga in debita considerazione.

Secondo loro dovremmo farcela entro tre anni, quindi prima della scadenza della domanda. Come ho già detto, è facile essere chiamati per un abbinamento entro il primo anno dalla presentazione della richiesta, ovvero quando il colloquio con il giudice è ancora “fresco”, oppure verso la fine dei tre anni, quando le domande in scadenza vengono revisionate… Le solite cose all’italiana.

Io ho già deciso che ogni tanto farò un salto in tribunale a salutare il giudice per fare in modo che si ricordi di noi 🙂

E magari gli manderò anche qualche regalino a casa… Che so, una Ferrari, un buono per una vacanza alle Maldive, un collier di diamanti per la moglie… Un pensierino così, diciamo =P

A parte gli scherzi… Non ho idea di quanto dovremo aspettare, so solo che quello che arriverà sarà LUI… NOSTRO FIGLIO. Lui e soltanto lui. La felicità che aspettiamo da anni.