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La Diana sulla Luna

Possiedo la capacità, che in tante occasioni della vita mi ha salvato dalla follia, di riuscire a chiudere a chiave in un cassetto della memoria i ricordi più dolorosi.

E poi di scordarmi volontariamente del luogo in cui ho riposto la chiave, in modo che non possa riaprire mai più quel cassetto.

E poi ci sono ricordi che, semplicemente, sono così ingombranti da non riuscire a chiuderli da nessuna parte, e forse non vuoi neppure farlo. Perché, in fondo, quel dolore ti ricorda anche la felicità che l’ha preceduto.

Oggi, 8 novembre 2020, è passato un anno esatto da quando Diana se n’è andata… Sì, era “solo” un cane agli occhi del mondo, ma, nella mia vita, rappresentava molto di più.

Anche se non vorrei, ricordo alla perfezione ogni dettaglio di quella giornata terribile.

L’immagine che mi viene subito alla mente quando ripenso a quei momenti è il modo in cui ho spazzolato il pelo della mia cagnolona, dopo che il veterinario aveva eseguito l’eutanasia. Il suo spirito non c’era più, il suo corpo immobile, eppure io mi sono messa a spazzolarla, da sola, nello studio del veterinario avvolto da silenzio.

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YuyuYaya (ciao, Diana)

YuyuYaya. È così che, per anni, mio figlio ha chiamato il luogo in cui vive. Si rifiutava proprio di dire la parola “casa”, e solo a fatica nelle ultime settimane la logopedista è riuscita a convincerlo a pronunciare questa, apparentemente semplice, parola.

Per lui casa è YuyuYaya.

Ciao, bibì! Io vado da YuyuYaya!” diceva, con entusiasmo, all’uscita dall’asilo, e ovviamente nessuno lo capiva (non che la cosa gli importasse più di tanto).

In realtà un po’ mi dispiaceva che la logopedista volesse a tutti i costi convincerlo a fargli abbandonare questo curioso modo di dire. Io lo trovavo così dolce, tanto che ogni volta mi veniva da sorridere.

Già, perché YuyuYaya non è una strana parola in dialetto bambinesco. Non è neppure uno scioglilingua assurdo. Yuyu e Yaya sono i nomi dei nostri cani: Yuma – detta YuYu per gli amici – e Diana – che mio figlio ha ribattezzato Yaya.

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Chiamatemi Grinch

Grinch

Ho un groviglio di pensieri nella testa. E, mi dispiace, ma temo che sarete voi a doverveli sorbire.
Oggi Marito è via per lavoro, e tornerà domani sera. Perciò non ho nessun altro che possa sopportare i miei deliri. Vi ringrazio anticipatamente per la vostra disponibilità.

Dunque. Ho passato gli ultimi giorni a piangere tre, quattro volte al giorno. In macchina, in ufficio, a letto, in qualsiasi momento o luogo o situazione. Ho cercato in tutti i modi di stare serena, di concentrarmi su tutte le belle parole da cui sono stata bombardata in questi giorni, ma la verità è che, se stai male, niente e nessuno può aiutarti. Il dolore deve fare il suo corso, proprio come una malattia, non c’è niente da fare. Se non sperare che non si tratti di una malattia incurabile.

Per diversi giorni ho dormito malissimo. Sono andata in farmacia per comprare un tranquillante. Un tempo ne facevo un grande (ab)uso. La farmacista non ha voluto darmelo senza ricetta, nonostante in questo ultimo anno abbia speso da lei un patrimonio tra test di ovulazione, test di gravidanza, acido folico, progesterone e chi più ne ha più ne metta. Ma io non avevo tempo per andare dal dottore a farmi fare la ricetta. Volevo dormire, e subito, cazzo! Così ho rinunciato. Solo pochi giorni fa, mettendo a posto la cucina, ho ritrovato un flacone semi nuovo di En che Marito mi aveva nascosto mesi fa (senza poi ricordarsi dove l’aveva messo) per curare la mia dipendenza. Ma non l’ho preso. Ormai non mi serviva più.

Ho smesso di piangere. Per ora, almeno. Adesso il mio bel micione riposa nel nostro giardino. Marito gli ha fatto una bellissima lapide.

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Oggi ho riguardato alcune sue foto, ma l’ho fatto con il sorriso. Era veramente un bel gatto, un amico dolcissimo, un fratello. Ha avuto una bella vita. Ci ha donato tanto, e anche noi gli abbiamo dato serenità. Quei bastardi che l’hanno abbandonato non sanno cosa si sono persi in tutti questi anni. Marito dice che ora ci proteggerà da lassù, insieme alla mia bisnonna (morta quando avevo 15 anni), insieme a sua nonna, insieme a Finny e a Cico (il cane dei miei suoceri e il gatto dei miei nonni). E che ci aiuteranno a realizzare il nostro sogno e proteggeranno i nostri bimbi. E’ un bel pensiero. Non possiamo fare altro che cercare di convincerci di questo.

Sono al 44° (QUARANTAQUATTRESIMO) giorno del ciclo e delle Malefiche neppure l’ombra. Ho fatto un altro test di gravidanza, così, tanto per passare il tempo. Quando è apparso il risultato negativo mi sono data dell’idiota da sola per aver sputtanato altri soldi. La mia faccia è un tripudio di brufoli, non faccio altro che mangiare cioccolata e sono lunatica più del solito. Ci siamo quasi, direi. Vi muovete o no? Non vedo l’ora di cominciare a prendere l’estradiolo e poter finalmente programmare il giorno del transfer. Ho bisogno di qualcosa in cui sperare.

Tra qualche giorno è Natale, e a dire il vero stento a crederlo. Negli ultimi anni è nata in me un’avversione verso questa festività. Cibo, cibo, cibo… Regali inutili… Auguri da persone che non senti mai… Ipocrisia… Lusso… Addobbi kitsch… Tutto questo, sinceramente, non mi interessa. Non ho neppure una famiglia unita con cui festeggiarlo, il Natale. Sono credente ma non praticante, dato che la Chiesa mi disgusta sempre di più (oh, gli omosessuali sono una minaccia alla pace, ricordatevelo!).
L’anno scorso ho passato la mattina di Natale a fare volontariato all’Enpa (io sono di turno alla domenica mattina e il 25 dicembre l’anno scorso cadeva proprio di domenica). E ne sono stata contenta, almeno ho dato un significato a questa festa. Quest’anno mi piacerebbe fare qualcosa di simile. Ho trovato un’associazione che alla sera va in giro per la città a distribuire cibo e coperte ai senzatetto. Vorrei contattarli per chiedere se posso dare una mano la sera di Natale. E, chissà, potrebbe anche nascere una collaborazione costante e duratura. Che ci posso fare. Io ho un debole per i reietti, da sempre. Animali, anziani, carcerati, senzatetto, immigrati. Gli ultimi tra gli ultimi. Quelli a cui nessuno pensa, sono quelli a cui io penso di più.
Sto cercando di convincere anche Marito a partecipare, ma non sembra molto convinto. Lui vorrebbe andare in ospedale, nel reparto di oncologia, a distribuire regali ai bambini malati di tumore. Un’idea bellissima, ma difficilmente realizzabile… Marito non conosce il mondo del volontariato, non sa che non ci si può improvvisare in questo modo! Dubito altamente che le infermiere ci farebbero entrare, senza un’associazione alle spalle, senza neppure sapere chi siamo! Per queste cose bisogna essere preparati. Mica puoi andare da un bambino, magari malato terminale, a dargli qualche regalo e a dirgli di pregare e avere speranza! Rischi di fare più danni che altro!
Ma Marito è così, è un sognatore. Meno male che ci sono io che, in quanto donna, sono un po’ più lungimirante!!

Non mi piace il Natale, non mi piace proprio. Si dice che a Natale siano tutti più buoni, ma in realtà a me sembrano solo tutti più ipocriti.

Oggi, a metà mattina, sono uscita a fumarmi una sigaretta. Da quando la mia “compagna di fumo”, interinale, è stata lasciata a casa, la pausa del mattino la trascorro da sola. Giusto il tempo di fumare e torno in ufficio. Tempo: circa 4 minuti (il capo ringrazia). La cosa non mi dispiace, sinceramente. Il pensiero di unirmi al gregge dei gggiovani che si siedono sulla scalinata davanti all’entrata dell’azienda (nonostante sia proibito) e ridono sguaiatamente come dei liceali non mi intriga per niente.
Oggi, mentre sfumacchiavo allegramente (?), ho incontrato E., una collega, che però lavora in un altro ufficio. Io e lei siamo state assunte più o meno nello stesso periodo. Non ricordo quanti anni abbia, comunque una trentina o forse meno. Appena è stata assunta è rimasta incinta. Ora sua figlia ha all’incirca due anni. Si è fermata un minuto a parlare con me. Le ho chiesto come stava la bimba.
Lei mi ha detto, euforica: “Tra poco ne arriva un’altra!”
Credo di essere sbiancata. E di aver distrutto la sigaretta che tenevo tra le dita.
“Eh sì, sono di nuovo incinta!” ha esclamato, aprendo il piumino (avrei voluto gridare “ti prego non farlo!!”) per mostrarmi il pancione.
Sono rimasta impietrita. Mi sono scostata di qualche passo da lei con la scusa che non volevo che respirasse il mio fumo. In realtà sarei voluta scappare via, lontano da lei e dal suo pancione.
Ho impiegato diversi istanti per ricompormi e farle le mie congratulazioni.
“Eh, però,” ha detto lei, un po’ scocciata, “aspetto un’altra femmina! Io avrei voluto un maschietto!”
“Beh, pensa a chi non può neppure avere figli…” ho replicato io, acidamente.
“Eh sì sì, è vero,” ha detto lei, ma non credo che abbia capito quello che intendevo dire.
Ovvero che aveva proprio davanti a sé una donna che non può averli.

Ora vado a scaldarmi una pizza surgelata e a finire di scolarmi la mia bella bottiglia di Crémant d’Alsace. Che serata, gente.

Al prossimo sproloquio.

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Il giorno di dolore che uno ha

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E’ da diversi minuti che osservo il monitor come inebetita, cercando le parole giuste da scrivere.

Mi sento stupida a scrivere sul blog in questo momento. Dovrei chiamare un’amica, ma non c’è nessuno con cui io mi senta di parlare in questo momento. Marito ha cercato di consolarmi, con belle parole, certo, ma che si sono rivelate del tutto vane.

Questa mattina, quando mi sono alzata, ho pensato che avrei voluto scrivere un bel post divertente oggi, come non faccio da tanto tempo. Ma temo che dovrò rimandare questo momento.

Le Malefiche non sono ancora arrivate, e il momento in cui i miei piccoli puntini luminosi entreranno a far parte di me si allontana sempre di più. Temo che, se non riusciremo a fare il transfer entro Natale (cosa ormai impossibile) il tutto slitterà a fine gennaio. Un’altra attesa. Un altro Natale da dimenticare.

Sono al 36° giorno e, da stupida masochista quale sono, ieri ho fatto un test di gravidanza. “Non si sa mai,” mi sono detta. Diciotto euro buttati nel cesso. Ovviamente era negativo.

Mia madre è sempre più fuori di testa e ogni giorno mi manda mille sms per dirmi cose orribili. Un’amica mi ha consigliato di non leggere più i messaggi, ma io non ne posso fare a meno. Ho sempre il timore che mi debba dire qualcosa di importante, così li leggo. E ogni volta sto male.

Abbiamo scoperto che mia nonna, nel ricovero sui monti in cui mia mamma l’ha relegata (ricovero da 1.500 euro al mese, non che questo importi), è stata derubata di tutto. Mia mamma le aveva comprato un intero guardaroba quando era entrata in ricovero. Il giorno stesso in cui è arrivata una delle operatrici (non si sa chi) le ha rubato tutti i vestiti nuovi. L’abbiamo scoperto dopo mesi, e mi sento una stupida per non aver detto niente prima, dato che avevo notato che indossa sempre abiti vecchi e logori. Credevo che mia madre, da fuori di testa quale è, non avesse pensato di portarle dei vestiti decenti, tanto che pensavo di comprarle qualcosa io. E ora invece viene fuori che le operatrici hanno tenuto nascosto questo fatto e fin dal primo giorno l’hanno vestita con gli abiti dei MORTI. Sì, avete letto bene. A mano a mano che le altre donne anziane ricoverate morivano, rubavano loro i vestiti per darli a mia nonna.

Non oso pensare quali altre crudeltà mia nonna debba subire. Quando io sono presente le operatrici sembrano tutte carine ed educate, ma… Quando non ci sono parenti in giro come si comporteranno?

Mia madre ha deciso di farla trasferire in un ricovero più vicino alla città, ma la lista d’attesa è lunga, e forse ce la farà soltanto per Pasqua, non prima…

E chissà se ci arriverà, a Pasqua. Le sue gambe sono sempre più gracili e la mente più debole.

Tre settimane fa, a causa di una brutta influenza che solo ora sta cominciando a passare, ho smesso di fumare. Non è stato molto difficile, dato che ogni volta che accendevo una sigaretta mi veniva da tossire come una pazza. E devo dire che il fumo non mi mancava neanche tanto. Oggi ho ricominciato. Mi sento una stupida, una debole, ma è stato più forte di me.

Io e Marito abbiamo appena seppellito Zymil in giardino.

Vi è mai capitato di vivere una giornata talmente pregna di emozioni, di dolore, di lacrime e di paura da arrivare a sera e chiedervi: ma è successo tutto veramente?

Oggi è una di quelle giornate, per me.

Stamattina, mentre ero in ufficio, ho ricevuto una telefonata di mia madre. L’ho ignorata, come mi ha consigliato la psicologa. Visto che insisteva, però, alla fine ho risposto. E un secondo prima di schiacciare il bottone verde sapevo già cosa mi avrebbe detto.

Stava piangendo. Mi ha detto che Zymil stava agonizzando. Era da giorni che non beveva e non mangiava più ed aveva perso un chilo in una settimana. Voleva portarlo dal veterinario. Io le ho detto di non fare nulla e di aspettarmi. Sono corsa fuori dall’ufficio, mentre percorrevo il corridoio ho iniziato a piangere, e sono andata a chiamare una mia collega, l’unica che sapevo avrebbe potuto capirmi… Ho continuato a piangere e urlare insieme a lei in corridoio, mentre i colleghi che passavano mi guardavano con un misto di curiosità e disappunto. Ha cercato di calmarmi, invano. Ho chiamato Marito e l’ho pregato di venire dal veterinario con noi. Poi sono tornata in ufficio, sempre correndo come una furia, mi sono vestita e ho detto al mio capo che dovevo andare e non sapevo quando sarei tornata. Lui, vedendomi tanto agitata, mi ha detto di non preoccuparmi e di fargli sapere qualcosa. Non gli ho detto niente perché sapevo che mi avrebbe deriso, forse non apertamente, ma dentro di sé sicuramente sì. Sono poche le anime che riescono a percepire la bellezza di un animale, un semplice animale che ti può donare molto più di un essere umano…

Mentre correvo per la strada, rischiando di farmi investire più di una volta, ho richiamato mia madre. Mi ha detto che stava già andando dal veterinario perché la situazione era gravissima e probabilmente gli avrebbero fatto LA puntura… Io l’ho pregata di aspettarmi, perché volevo essere lì… E lei non mi sentiva! Gliel’ho ripetuto mille volte, urlando in mezzo alla strada come una pazza… E lei continuava a dire che non riusciva a sentirmi perché la linea era disturbata! Sono arrivata alla macchina, ho guidato come una scriteriata e per fortuna sono arrivata dal veterinario in tempo, appena prima dei miei genitori e di Marito.

Era da qualche giorno che non vedevo Zymil. Quando ho dato un’occhiata dentro al trasportino, non ho potuto fare a meno di urlare. Il mio micio, il mio bellissimo micio bianco, non si muoveva. Era avvolto in una coperta. I suoi occhi erano semiaperti, ma non sapevo se mi stessero guardando realmente.

Siamo entrati nell’ambulatorio, e prima di adagiarlo sul tavolo l’ho voluto tenere un po’ in braccio, per fargli sentire il mio calore, il mio amore, sperando in un miracolo che sapevo non sarebbe accaduto.

La veterinaria ha detto subito che la situazione era grave. Ormai i suoi reni erano completamente andati, anche se il suo cuoricino era molto forte… Ci ha detto che con delle flebo e delle medicine poteva farlo sopravvivere ancora un giorno al massimo. Noi abbiamo deciso all’unanimità di farlo smettere di soffrire.

Secondo la dottoressa Zymil era in coma e non sentiva più niente. Ma io non credo che fosse vero. Gli ho tenuto la zampina per tutto il tempo, e lui mi ha stretto la mano… Mi guardava aprendo e chiudendo leggermente gli occhietti, come per dirmi: “Sono stanco, sono pronto per andare!”

La dottoressa diceva che erano soltanto spasmi involontari, ma io non credo che fosse così. Non voglio crederlo!

Gli ho tenuto la zampina e l’ho accarezzato mentre gli veniva fatta la puntura dell’anestesia… E quando finalmente si è addormentato, la veterinaria gli ha fatto quella maledetta puntura nel cuore… Che, lo sapevo, gli avrebbe dato sollievo, ma che l’avrebbe portato per sempre via da questo mondo. E da me.

Quest’agonia è durata tantissimo tempo… Il cuoricino di Zymil non ne voleva sapere di fermarsi! Mentre se ne andava la sua bocca si apriva e si chiudeva, e io ho chiesto alla dottoressa cosa stesse succedendo… Lei mi ha risposto che si trattava di spasmi involontari, che presto avrebbe smesso, e che le dispiaceva molto, perché questo accade solo una volta su un milione… Anche quando il suo cuore aveva ormai smesso di battere la sua bocca e i suoi occhi continuavano a muoversi… Io non riuscivo a vederlo così. Ho continuato a tenergli la zampa e ho chiuso gli occhi, inginocchiandomi davanti a lui, inondando il pavimento di lacrime.

Anche i miei genitori piangevano, e per la prima volta mi sono sentita in sintonia con loro… Marito è uscito per darci un momento di intimità, e mio padre avrebbe voluto che lo seguissi… Ma io ho preteso di restare. Volevo accompagnare Zym sul ponte dell’arcobaleno…

E poi… E poi ricordo solo tante lacrime. Ho detto ai miei che volevo portarlo a casa per seppellirlo in giardino, e per fortuna non hanno avuto niente da ridire. Marito è tornato a lavorare e mia madre è andata a casa, ed io e mio padre siamo andati in un negozio a comprare una bella cassettina dove farlo riposare. Poi siamo andati a casa mia a cominciare a scavare la buca, ma mio padre se n’è andato prima d’aver finito perché mia madre l’ha chiamato, incavolata nera, gelosa marcia del fatto che io e mio padre fossimo insieme. La sua malattia mentale non si placa neppure in questi momenti. Mi ha addirittura mandato un sms per dirmi che “la vita mi punirà” per averla esclusa… E meno male che è stata lei ad insistere affinché mio padre venisse a casa mia, e meno male che non ha mai chiesto di poter venire anche lei. Fa sempre così. Fa le cose apposta per poi potersene lamentare e additare gli altri di essere crudeli nei suoi confronti, mentre è lei ad essere la persona più malvagia ed egoista verso gli altri.

Potevamo essere uniti, per una volta, sebbene nel dolore… Potevamo essere una famiglia. E, invece, non è stato possibile.

Nel pomeriggio sono tornata a lavorare. Ho lasciato Zymil in giardino, nel suo trasportino coperto da un lenzuolo. E’ stato un pomeriggio orribile. Nessuno, per fortuna, mi ha domandato come mai fossi uscita tanto angosciata questa mattina. Non avrebbero capito.

Quando sono tornata a casa, nel buio, io e Marito abbiamo finito di scavare la fossa. Poi abbiamo messo il corpo di Zymil nella scatola, avvolto in una coperta. E ho pianto, pianto, pianto, toccando il suo corpo rigido, freddo, che non mi farà mai più le fusa, che non cercherà mai più le coccole, che non sarà, mai più.

Abbiamo seppellito la scatola. E domani faremo una bella croce e una lapide.

Marito ha cercato di consolarmi, dicendomi che gli abbiamo donato una bella vita, che era giunto il suo momento, che continuerà a vivere nei nostri ricordi… Che prima o poi anche i nostri cagnoloni non ci saranno più, ed io devo essere pronta…

Sono ore che non faccio altro che pensare alla morte.

Ho sempre creduto che esista qualcosa, dopo.

Ma ora non lo so più.

Forse non c’è niente. Forse l’anima e l’aldilà sono solo invenzioni delle religioni.

Non c’è niente, dopo.

Un attimo siamo, e quello dopo non siamo più.

Non possiamo più provare alcuna emozione. Non possiamo ridere, amare, stare bene, soffrire, piangere.

Non possiamo più fare nulla. Non ci siamo più. Non siamo più.

In questo momento non esisto neanch’io.

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Fatemi scendere, per favore

Dopo lo sfogo dell’altra sera ho cercato di convincermi che, proprio come qualcuna di voi mi ha detto nei commenti, avrei dovuto approfittare di quest’ennesima attesa, neppure tanto lunga, ma atroce, per prendermi cura di me stessa, per rendere il mio corpo un nido accogliente per i miei “bimbi”. E non per bere, fumare come un ossesso e mangiare un giorno sì e due no come sto facendo ultimamente.

Ma non faccio in tempo a smettere di piangere, a rialzare la testa, che dietro l’angolo mi aspetta già l’ennesima sofferenza. E un nuovo pianto.

Stamattina sono andata a trovare mia nonna materna al ricovero dove mia madre l’ha letteralmente sbattuta ormai diversi mesi fa contro la sua volontà. Era da un po’ che non la vedevo, a causa della PMA e tutto il resto. Tra l’altro il ricovero si trova ad un’ora dalla mia città, in un paesino sperduto sugli Appennini… Non oso pensare quando ci sarà la neve (e lì nevica parecchio…) come farò ad andarci.
Ultimamente mia nonna non fa che peggiorare. Ormai non mi riconosce più, non parla, non riesce a camminare, in bagno non riesce neppure a tirarsi giù i pantaloni da sola e devo aiutarla io o le infermiere. Negli ultimi anni mia nonna è finita spesso all’ospedale perché ha tanti problemi a causa della vecchiaia, ma quando l’andavo a trovare in ospedale non era così stranita come ora! Mi ricordo che una volta, quando era ricoverata, le avevo persino portato le foto del matrimonio e le aveva guardate con gioia… Fino ad un anno fa andava in bagno tranquillamente da sola, addirittura cucinava per sé (ok, faceva cuocere la pasta per 45 minuti, ma almeno riusciva a mettere una pentola sul fuoco!).
Ora sembra un’altra persona… Non fa altro che ripetere che vuole andare via da lì, ma io sono impotente, non posso fare nulla, non posso prendere decisioni! Se potessi la porterei a casa con me, ma ha bisogno di qualcuno che stia con lei, e io e Marito siamo al lavoro tutto il giorno, mica possiamo lasciarla da sola in casa con due cani…
La sto guardando spegnersi ogni giorno di più, e non posso fare nulla… Vorrei tanto che il mio bambino la potesse conoscere, ma non so se accadrà…

Quando ragionava ancora, qualche mese fa, mia nonna mi ha chiesto quando avrei avuto un figlio… Io le ho detto che ci stavamo “lavorando”… Ovviamente non le ho detto della PMA, sarebbe un po’ difficile da spiegare ad una donna di 86 anni (me la immagino chiedermi in dialetto: “Cos’è quella roba lì? Stimolazione ovarica? Liquido seminale? Provetta??”).
Mia nonna in quell’occasione mi ha solo consigliato di portare pazienza, perché anche lei aveva aspettato mia madre per dieci anni (tanta attesa per un risultato così!!). Io le ho detto che, quando sarei rimasta incinta, sarebbe stata la prima a saperlo… Ma ci sarà ancora, quando questo piccolo grande miracolo accadrà? Sarà ancora in grado di capire, di gioire con me, per me? Potrà prendere in braccio il suo nipotino (dovrei dire pronipotino, ma suona male) e capire chi è?

Forse no. Probabilmente no.

I miei genitori sono da una settimana alle Mauritius. Credo che debbano rientrare domenica prossima. Non li sento da mesi, ormai, a parte qualche sporadico sms che mi manda mia madre per farmi sapere quanto mi detesta o che devo ritenermi orfana. Qualche giorno fa mia nonna paterna mi ha pregato di chiamarli perché aveva saputo che dovevano parlarmi. Controvoglia, ma preoccupata che fosse successo qualcosa, l’ho fatto.

E’ stato strano risentire la voce di mia madre dopo tanto tempo. Non so neppure spiegare esattamente cos’abbia provato. Tanta rabbia, credo. E un pizzico di tristezza per quello che avremmo potuto essere, per quello che non siamo mai state l’una per l’altra.

Naturalmente mia madre non mi ha chiesto nulla sulla fecondazione assistita. Mi ha solamente domandato, frettolosamente e con tono indifferente: “come stai?”. Io ho risposto con un altrettanto laconico “bene”. La sua replica? “Ah, ok.” Nient’altro.
Sa benissimo quello che sto passando. Anzi, no, non sa proprio nulla, dato che non si è mai interessata. Non sa dell’iperstimolazione, dei dolori che ho dovuto sopportare, della mia angoscia… Ma è a conoscenza del fatto che in questo periodo mi sarei dovuta sottoporre ad un secondo ciclo di PMA. Gliel’ho detto un paio di mesi fa, quando le ho annunciato che, purtroppo, non mi sarei potuta occupare io della casa e dei gatti durante la loro assenza. Quando gliel’ho detto ovviamente pensavo che in questo periodo sarei dovuta stare a riposo dopo il transfer, o magari sarei stata incinta e quindi impossibilitata a fare sforzi.
Dato che è saltato tutto, lunedì scorso ho mandato un sms a mia madre per dirle che ero libera e che avrei potuto occuparmi io dei mici, ma lei mi ha risposto che era meglio di no. Aveva già chiesto al figlio della veterinaria di andare a casa ogni sera per dare loro da mangiare e che, dato che uno dei gatti sta poco bene e deve prendere delle medicine, preferiva che fosse questo ragazzo a farlo, perché è più esperto di me. E mi ha espressamente vietato di andare a casa per non stargli tra i piedi.

Mi è dispiaciuto molto, perché quei gatti con cui ho vissuto per anni sono per me come dei figli, e mi piace di tanto in tanto prendermi cura di loro e coccolarli. Non lo posso fare spesso, dato che voglio evitare i contatti con i miei genitori, e quindi vado a casa loro soltanto quando non ci sono…

Sapevo che in fondo era meglio così perché, anche se sono da anni una volontaria della Protezione Animali e somministro sempre medicine ai gatti del nostro rifugio, mi sarei sentita in difficoltà a dovermi accollare questa responsabilità… Mi sono detta che sicuramente il figlio della veterinaria era più bravo di me, e anche se avesse faticato non si sarebbe fatto dei problemi a chiamare sua madre per aiutarlo.

Purtroppo io sono una maniaca del controllo. Ma proprio maniaca, eh. Non mi fido di nessuno. E da quando i miei genitori sono partiti non faccio altro che chiedermi: “ma quel ragazzo sarà bravo? Farà attenzione che i gatti non scappino per le scale? E se si dimenticasse di chiudere la finestra e uno dei gatti cadesse giù? E se si scordasse di dare loro l’acqua e morissero di sete?”

Sì, sono paranoica. Ma forse sono giustificata dal fatto che, quando aveva soltanto qualche mese, dieci anni fa il nostro primo gatto è caduto giù dal balcone (dal terzo piano). Sono rimasta traumatizzata per anni da quella terribile notte, anche se il micio si è salvato ed è tuttora il re della casa.

In questi giorni ho cercato in tutti i modi di restare tranquilla, ho provato con tutte le mie forze a fidarmi di questa persona.

E proprio l’altra sera mia madre, ignara (perché neppure me l’ha chiesto) di tutto quello che è successo, che mi è successo, ha deciso di annunciarmi che il gatto che sta male probabilmente non vivrà ancora a lungo. Me l’ha detto così, senza alcuna delicatezza, senza neppure spiegarmi il perché.

Zymil. Sì, proprio come il latte. Questo è il nome del micio. Un bellissimo gatto persiano dal pelo folto e bianco che abbiamo trovato, abbandonato, otto anni fa. Dovrebbe avere all’incirca dieci anni, ma forse ne ha anche dodici. Come molti gatti della sua razza, ha entrambi i reni policistici. Una malattia incurabile.

I miei gatti sono stati i miei unici amici durante un’adolescenza vissuta per la maggior parte nella solitudine e nella sofferenza. Io sono stata la prima persona di cui Zymil si sia fidato. E nessuno si era mai fidato di me, prima di allora. Avevo diciotto anni quando i miei genitori l’hanno portato a casa, tutto sporco e arruffato. Non appena l’hanno liberato si è nascosto in cucina e non ne voleva sapere di venir fuori. Io sono stata una sera intera accucciata per terra, cercando di convincerlo ad avvicinarsi a me, cercando di fargli capire che non gli volevo fare del male. Lui non si muoveva, ma ad un certo punto ho cominciato a sentire uno strano rumore. Credevo che stesse ringhiando e ho preso paura, ma poi ho sorriso capendo che stava facendo le fusa! Mi sembrava quasi che volesse dirmi: “Vorrei fidarmi di te, ho capito che sei buona, ma ho paura!”

Con il tempo Zymil è diventato un gattone buono e coccolone… Anche se negli ultimi anni mi vede raramente, ogni volta che entro in casa mi riconosce, inizia immediatamente a fare le fusa e si mette a pancia all’aria per farsi coccolare… A differenza degli altri mici, lui beve molto e ogni volta la sua “barba” si impregna d’acqua, e lascia una lunga scia sul pavimento… Ha due occhi bellissimi, uno è ambrato e l’altro azzurro… Quando mi guarda penso di non aver mai visto occhi così belli e intensi.

E’ solo un gatto, ma io gli voglio bene. Non voglio che se ne vada. Ora non potrei sopportarlo. Vorrei che anche lui conoscesse il mio bambino, che potesse fargli le fusa, che potesse insegnarli che il cuoricino di un gatto può dare più amore di tanti esseri umani…

Ieri ho chiamato la veterinaria per sapere le reali condizioni di Zymil. Non mi fido molto di mia madre, pensavo che avesse esagerato. La dottoressa era felice che l’avessi chiamata e mi ha pregato di portarle il gatto, perché suo figlio non riesce a prenderlo e ha bisogno di fare flebo ogni due giorni. Ma mia madre non poteva dirmelo, sapendo che per i gatti farei qualsiasi cosa?! Voleva che saltasse le flebo per due settimane intere?
Ho portato immediatamente il micio da lei dopo il lavoro. Era da un po’ che non lo vedevo. E’ veramente magro. Prima pesava sei chili, ora la metà esatta… Quando lo accarezzo sento le ossa, prima sentivo solamente della bella ciccia, e lo prendevo sempre in giro per questo…
Non appena l’ho visto sono scoppiata a piangere. E ho continuato mentre la veterinaria gli faceva la flebo, e sono crollata quando mi ha annunciato che sì, potrà vivere ancora, ma non per più di qualche mese.
Oggi sono andata ancora a trovare il micio, per coccolarlo un po’. Mi sono sdraiata sul letto con lui (ama accucciarsi sul cuscino) e l’ho accarezzato a lungo. E più mi faceva le fusa, più io piangevo. Anche Marito, che mi aveva accompagnato, aveva gli occhi lucidi. E lui non piange quasi mai.

Porterò di nuovo il micio dalla veterinaria lunedì. E so che piangerò di nuovo. Cercherò di trattenermi, ma lo farò ugualmente.

Con gli anni ho imparato che il vittimismo non serve a niente, che bisogna cercare di apprezzare ciò che di bello si ha… Non mi piace lamentarmi, non mi piace farmi vedere sempre triste, ma in questi giorni è molto dura sorridere. Cerco di vedere quello che di buono c’è nella mia vita, e so di avere tante cose belle, ma è difficile gioire quando non puoi fare nulla per chi ami!

Sono circondata dalla morte. E sono totalmente impotente davanti a tutto questo. E mi chiedo: come posso trovare la vita, in mezzo a tutta questa desolazione?
Soltanto realizzare il desiderio di avere un figlio potrebbe ridarmi la gioia.
Ma come potranno i miei embrioncini rimanere attaccati ad un corpo così pieno di dolore? Chi vorrebbe restare con una persona che non fa altro che piangere?
Sono tanto stanca di queste prese in giro del destino, di questa giostra del dolore. Fatemi scendere, per favore!

Ieri sera ho parlato con Dio.  Era da tanto che non lo facevo. Dico “parlato” e non “pregato” perché le mie non sono vere e proprie preghiere. Mi scappano anche delle parolacce quando parlo con Lui. Non ho idea se Dio sia uno e trino, se Gesù Cristo facesse sul serio i miracoli o se la Vergine Maria fosse davvero vergine. Non me ne frega niente, in realtà. Io so che Lui c’è. Ed è questo che mi fa più incazzare. Gli ho detto che non sento più la Sua presenza accanto a me. Dentro di me. Che forse non l’ho mai sentita. Che vorrei sentirla, davvero, per riacquistare un po’ di fede. Non so cosa mi aspettassi. A volte faccio troppi voli con la fantasia, soprattutto dopo aver bevuto un po’… Forse speravo che mi desse un segno, tangibile, della Sua presenza. Che mi facesse sentire che non sono sola. Che Lui, oltre ad esserci, mi ama, ci ama. Ma non mi ha dato alcun segno. Non sono meritevole neppure della Sua attenzione?

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Se ti pago, puoi essere una mamma?

Nella mia vita ne ho passate di tutti i colori. Spesso mi sono sentita sola, immensamente sola. Anzi, non era semplicemente una sensazione: era davvero così. Ho allontanato gli amici, sono stata allontanata da amici, ho trascorso interi anni senza parlare con un’anima viva. I genitori dovrebbero essere le uniche persone che ti rimangono sempre accanto, l’unica certezza della vita, ciò che ti sostiene quando stai per cadere… Ma io non ho mai avuto questa certezza, e sono sempre caduta rovinosamente. Mi sono sempre fatta male, ma mi sono sempre rialzata. Ho dovuto imparare a farlo con le mie forze, ed ogni volta, dopo ogni caduta, mi sono sentita un po’ più sola.

In questo periodo avrei bisogno dei miei genitori più che mai. Ma loro non ci sono. Non sanno niente di quello che mi sta accadendo. Non ho detto loro nulla. E come avrei potuto? Sono troppo impegnati a litigare come adolescenti, ad addossarmi la colpa delle loro vite infelici, a dirmi che sono una figlia cattiva, che non sono riconoscente per tutto quello che hanno fatto per me…

Ieri sera sono stata mezz’ora al telefono con mia madre per aiutarla ad iscriversi a Facebook. Dopo la storia del divorzio lei vuole a tutti i costi crearsi un profilo per ripicca verso mio padre, perché lui è iscritto da tre anni. Questa mattina mi ha richiamato, disperata, perché non era riuscita a completare l’iscrizione.
“Mi sta venendo un esaurimento nervoso!” ha urlato. “Non è possibile che io non ci riesca! Tuo padre è iscritto da anni, ora voglio esserci anch’io! Se ti pago, vieni qui ad aiutarmi?”
Se ti pago… Certo, mia madre ha sempre pensato che i soldi possano risolvere tutto. Se ti pago, potresti essere una mamma, anche solo per un giorno?

Fino a quel momento ero riuscita a mantenere la calma, dal giorno in cui mi ha spaventato dicendo che voleva chiedere il divorzio ho messo da parte il mio rancore verso di lei, l’ho aiutata, ascoltata parlare di amanti e scopate, mi sono sentita dare indirettamente della puttana, l’ho sostenuta come una madre dovrebbe fare con la propria figlia… Ma quelle parole non sono riuscita a sopportarle. Mentre urlava che le stava venendo un esaurimento perché non riusciva ad iscriversi a Facebook, io ero seduta alla mia scrivania, circondata da pile di analisi del sangue, biopsie, pap test, spermiogrammi… Mi è andato il sangue al cervello, non ci ho visto più, le ho urlato un bel “vaffanculo” e le ho chiuso il telefono in faccia.
Qualche ora dopo mia madre ha chiamato Marito per dirgli che sono veramente una gran maleducata e cattiva, e che comunque alla fine ce l’ha fatta. Si è iscritta a Facebook e non vede l’ora che io guardi il suo profilo, perché sa che rimarrò scandalizzata dalla foto un po’ osé che ha messo.

Brava, mamma. Magari quando avrò scoperto se ho un tumore, o una displasia, o per quale cazzo di motivo il mio utero non sta bene, e dopo che avrò scoperto se esiste un rimedio per curare gli spermini strani di mio marito, forse allora troverò il tempo per guardare il tuo profilo su Facebook. E, comunque, dopo essermi sentita dire che potrei generare un mostro, dopo aver ascoltato un infermiere parlarmi delle sue avventure sessuali e dopo aver sanguinato una settimana a causa della biopsia, beh, niente mi può più scandalizzare. Mi dispiace, mamma. So che ti piace provocarmi, irritarmi, imbarazzarmi, ma… Ora ho imparato a cadere.

Con questo post vi auguro una buona Pasqua, e, da convinta animalista, nonché credente (seppur non praticante, non nel senso che tutti danno a questa parola), mi permetto di pregarvi di leggere questo articolo, dove viene spiegato perché NON mangiare carne di agnello (ma neanche di vitello o altri cuccioli), né per Pasqua, né in altre occasioni.

http://www.italiapiugiusta.com/index.php?option=com_content&view=article&id=322:agnello-di-dioabbi-pieta-di-noi&catid=59:nostre-iniziative

Dato che suppongo che questo blog sia visitato soprattutto da mamme/papà o aspiranti tali, penso che a nessuno di voi, riflettendoci un attimo, possa piacere l’idea di mangiare un cucciolo strappato a pochi giorni di vita dalla sua mamma… Cucciolo che, prima di arrivare nella vostra cucina, è stato trasportato in camion stipato insieme ad altri animali innocenti, e a cui magari sono state rotte le zampe per immobilizzarlo… Cucciolo che è stato macellato tra atroci sofferenze. Cucciolo che è molto simile all’essere umano per quanto riguarda percezione della sofferenza ed emozioni. Inoltre, questo non mi sembra neppure un bel modo per festeggiare il Signore, che ne dite?

Buona Pasqua a tutti voi.

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Sono invidiosa… Di un gatto!

Oggi sono andata, come ogni domenica, a fare volontariato presso l’associazione per gli animali a cui sono iscritta. Io amo gli animali. Animali e bambini sono le creature più belle del mondo. Innocenti, indifesi, privi di ogni malvagità. Ma, mentre i bambini sono amati e rispettati praticamente da tutti (anche chi non ne vuole avere, non si sognerebbe mai di giustificare le crudeltà che ogni giorno vengono inflitte ai bimbi, né giudicherebbe male chi svolge volontariato per loro), gli animali, purtroppo, no. E visto che io sono da sempre una paladina dei “reietti”, da qualche anno mi sono iscritta a questa associazione per aiutarli. Quando curo gli animali mi sento meglio, i pensieri negativi svaniscono, almeno per qualche ora. Mi sento bene.

Negli ultimi giorni una delle gatte curate presso la nostra struttura ha partorito quattro cuccioli. Oggi li ho visti per la prima volta. Mi sono commossa. Sono creature così piccole, docili, indifese… La mamma li teneva abbracciati a sé, e mentre prendevano il latte i “bimbi” erano avvinghiati l’uno all’altro. Una meraviglia della Natura! Non ho resistito e, dato che la mamma sembrava buona, ho preso un cucciolino in mano e l’ho adagiato sul mio petto per fargli sentire il mio calore e fargli capire che non doveva avere paura, che io gli voglio bene. Mi è sembrato di stringere un bambino… Quel bambino che, forse, non avrò mai.

Ad un certo punto il cucciolo ha iniziato ad agitarsi, voleva tornare dalla sua mamma… E mamma gatta mi guardava intensamente con i suoi grandi occhi gialli, mi sembrava quasi che mi stesse dicendo: “Che fai? Ridammi il mio cucciolo! Lui è mio, tu non ne hai, e non ne avrai mai!”
Ho rimesso il gattino nella gabbia con i suoi fratellini, e lui ha ricominciato subito a prendere il latte. Ho continuato a guardarli ancora per un po’. E mentre guardavo quella scena dolcissima, mi sono resa conto che, in effetti, io ero invidiosa della mamma gatta. L’ho osservata stringere i suoi cuccioli, allattarli con pazienza e amore, e non facevo altro che chiedermi “E io? Perché questo gatto sì, e io no?”

Sono invidiosa di un gatto.

Quando l’ho raccontato a Marito, lui ha detto semplicemente: “Quel gatto non ti può aver parlato. I gatti non fanno ragionamenti così complicati…”
“Ma certo, lo so che non mi ha parlato!” (Ok, sono un po’ fuori di melone, ma non fino a questo punto). “Ma hai capito quello che ti ho detto? Sono invidiosa di un gatto!”
“Mmh… Vabbé (stile Gisella de “I soliti idioti”). È ora di pranzo. Mangiamo?”
Certo, mangiamo. Sperando che le mezze maniche della Barilla non decidano di parlarmi.