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TE PIACERE BAMBINI? (Racconto di un pick up tragicomico)

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La mia cameretta d’ospedale

Rieccomi.

Voi vorreste sapere com’è andato il pick up di ieri, vero? Lo saprete, lo saprete… Ma, prima, dovrete sopportare tutto il mio dettagliato resoconto.
Voglio rendervi partecipi della mia tragicomica esperienza. E non barate, non vale andare a leggere in fondo al post! Voglio creare un po’ di suspence!

Dunque. Per prepararmi al pick up la dottoressa mi ha prescritto tutta una serie di terapie da effettuare ad orari precisi nei tre giorni precedenti: lavande vaginali, ovuli vaginali e pastiglie di carbone attivo. Ho speso 60 euro in farmacia per prendere tutta ‘sta roba. Mi sono detta che, in qualunque modo fosse andato il prelievo ovocitario, sarei stata la donna dalle parti intime più pulite e profumate del mondo. Nonché dall’intestino più libero.

Tralasciamo questa parte e arriviamo al giorno del giudizio.

Marito aveva già programmato la giornata minuto per minuto da settimane. Lui è peggio di me. Se non pianifica tutto nei minimi dettagli va in paranoia. Oh, Dio li fa poi li accoppia.

Giovedì sera siamo andati a letto alle dieci di sera. Mai successo. Di solito alle dieci siamo ancora a tavola. Naturalmente, per l’agitazione, ho faticato a dormire. Quando finalmente sono riuscita ad addormentarmi, ho sognato (in maniera così nitida che sembrava reale) il momento del pick up. Ho sognato la ginecologa che mi annunciava che non avevo neppure un ovocita. E io mi incazzavo di brutto.

Venerdì 7 marzo. Sveglia ore 4.30. Eh sì, avete capito bene. Naturalmente avevo già preparato la borsa per il ricovero la sera prima. Ero convinta di aver preso su tutto: camicia da notte, assorbente (dopo il pick up perdo sempre un po’ di sangue), le nostre cartelle mediche da più o meno cinque chili di peso, tessera sanitaria, cellulare per scattare qualche foto (sono peggio dei giapponesi in vacanza), libro da leggere per ingannare l’attesa.

Siamo partiti alle 5.30 e arrivati all’ospedale a Milano alle 6.30. Non so che a velocità sia andato Marito e preferisco non scoprirlo. Il ricovero era previsto per le 7. E pensare che Marito aveva il terrore di arrivare in ritardo…
Il reparto day hospital di Ginecologia era vuoto, fatta eccezione per altre due donne, accompagnate dai rispettivi mariti. Ci siamo salutate e scambiate un sorriso, ho capito subito che erano lì anche loro per il pick up.
Il mio terrore era quello di ritrovarmi in stanza con altre donne, magari incinta… Non penso che avrei potuto sopportarlo. E invece… Sorpresa. Quando l’infermiera è arrivata per accompagnarci nelle nostre camere, ho scoperto di avere una stanza tutta per me. Con bagno privato. Che figata.

L’infermiera mi ha detto di cambiarmi, in attesa di andare in sala operatoria. Mi sono messa la camicia da notte, ed è stato allora che mi sono accorta di non aver portato con me le ciabatte. Poco male, mi sono detta. Tanto, mica devo camminare. Ero certa che ci avrebbero portato in sala operatoria in barella. Eh, no. Troppa grazia.

Dopo una mezz’oretta l’infermiera è tornata per dirmi che, insieme alle altre ragazze, dovevo scendere al piano di sotto per andare in sala operatoria. Panico.
Ho fatto presente di essermi dimenticata le ciabatte. Ho chiesto – anzi, implorato – un paio di ciabatte, anche usa e getta. L’infermiera ne era sprovvista. Ho persino chiesto a Marito di togliersi le calze e darle a me. Si è rifiutato.
“Beh, dai, vorrà dire che ti metterai le scarpe per scendere…” mi ha detto l’infermiera. Poi ha guardato alle mie spalle, dove avevo gettato tutti i miei abiti, e ha esclamato: “Ah, hai gli stivali. E va beh, dai, mettiti quelli…” Sono sicura che stesse per scoppiare a ridere. Sì sì.

Ho cominciato a sudare freddo. Camicia da notte e stivali?! No, dai, non potevo fare una figura di merda del genere.
Non io, la veterana dei pick up…! Il tempo stringeva, e dovevo decidermi. Non avevo altra scelta. Camicia da notte e stivali. Oh yeah, baby.
Ero anche piuttosto sexy. Ho raggiunto le altre due donne in corridoio. Prima che potessero dire qualsiasi cosa, ho spiegato perché fossi vestita in quel modo. Si sa, le donne ormonate possono essere abbastanza perfide.

Fortunatamente, durante il tragitto per la sala operatoria, non abbiamo incontrato altri esseri viventi. Fiuuuu.

Io e le altre due ragazze ci siamo accomodate in una specie di sala d’attesa. L’infermiera mi ha messo l’ago per l’anestesia. Come sempre, ha faticato a trovare una vena decente da bucare. E io, come sempre, ho urlato dal dolore. Non so che farci, ho la fobia degli aghi. E pensare che sono anche donatrice di sangue. Poi l’infermiera se n’è andata, annunciandoci che ci avrebbe chiamate una alla volta per il pick up. Io dovevo essere l’ultima.

Ho cercato di fare conoscenza con le altre due donne. Nel frattempo Marito è andato, insieme agli altri uomini, ad effettuare la – ehm – donazione.

Ho conosciuto S., una donna di quarant’anni che ha già un figlio di venti dal primo matrimonio. Ora vorrebbe un figlio con il suo nuovo marito, ma dato che non riesce a rimanere incinta (non ho chiesto perchè, forse a causa dell’età), ha deciso di provare con la PMA. E’ al suo primo tentativo.
L’altra donna, di cui ignoro il nome, è una ragazza trentenne originaria dello Sri Lanka. Anche lei al suo primo tentativo. Dato che a me piace fare la maestrina, ho fatto presente che questo, invece, è per me il terzo pick up (manco fosse un vanto, mamma mia…) e, visto che entrambe erano molto spaventate, ho cercato di rassicurarle come meglio potevo.
A questo punto ero ancora abbastanza tranquilla. Abbiamo scherzato un po’ su tutte le lavande che ci siamo dovute fare in questi giorni.

S. era la prima, e una volta che è stata chiamata siamo rimaste da sole io e la ragazza dello Sri Lanka.
Non parlava benissimo l’italiano, mi ha detto di essersi trasferita in Italia da un paio d’anni. Ha raggiunto il marito che, invece, lavora qui da più tempo.
Non sapeva praticamente nulla di quello che stava per accadere.
“Oggi mi prendono uova, vero?” mi ha chiesto. “E poi, quando mettono embrioni?”
Ho cercato di spiegarle un po’ come funziona il tutto. Cavolo, ma possibile che non si fosse fatta spiegare bene cosa le avrebbero fatto? Lei si è accorta del mio stupore, e si è giustificata dicendo che era suo marito a sapere tutto, perché capisce bene l’italiano.

Aveva molta paura, e ho cercato di tranqillizzarla.

Ad un certo punto mi ha detto che quella mattina non era riuscita ad andare in bagno.
Si è toccata la pancia e ha esclamato: “Sai… Cacca!”
Non so come ho fatto a non ridere. Anche se, a dire il vero, l’argomento non mi fa tanto ridere. Io avevo il terrore di arrivare al pick up senza esserer riuscita a… Liberarmi prima.
Sapete, sveglia alle 4.30, niente colazione… E’ un po’ difficile riuscire ad andare in bagno!
Per fortuna, grazie alla privacy del mio bagno privato, ci ero riuscita. Ma non ho condiviso il mio successo con la ragazza dello Sri Lanka.

Dopo una pausa di silenzio, la ragazza mi guarda con aria sognante e fa: “Ma a te piacere bambini?”

Ho sgranato gli occhi. Ma, sai… Non è che mi piacciano poi tanto… Se arriva, un figlio, lo tengo… Ma mica lo sto cercando!

Secondo Marito avrei dovuto rispondere così.
Invece, ho allargato le braccia e esclamato: “Eh beh… Direi!” La ragazza si è messa a ridere.

Quando anche la ragazza dello Sri Lanka è stata chiamata in sla operatoria, io sono rimasta da sola nella sala d’attesa. Non sapevo cosa fare. Mi sono stesa su una barella, poi mi sono rialzata e sono andata un paio di volte in bagno per liberarmi dalla pipì nervosa.
Mi ero atteggiata tanto da veterana, da saggia, da esperta… E tremavo dalla paura!
Poi, finalmente, è arrivato il mio turno. Sono entrata in sala operatoria (non avevo più gli stivali ai piedi, ma i calzari medici, e una sexissima cuffia sulla testa.).
Sono rimasta a bocca aperta. Mi sembrava di essere protagonista di un episodio di Grey’s Anatomy. Vi giuro, davanti agli occhi avevo la sala operatoria più bella che abbia mai visto. C’erano un sacco di medici che si muovevano da tutte le parti…

Mi sono sdraiata, come al solito, a gambe aperte, e la dottoressa mi ha infilato lo speculum.
Primo problema. Ero rigida come un tronco. Più cercavo di rilassarmi, più peggioravo la situazione. M sentivo sempre più in ansia.
Ho pregato l’infermiera di darmi la mano. Gliel’ho stritolata.
La dottoressa mi ha fatto una lavanda (ancora?!). Io mi sono messa a piangere dall’agitazione. L’infermiera mi ha dovuto asciugare le lacrime. Sono stati tutti carinissimi ma immagino che, una volta che mi sono addormentata, abbiano fatto la ola tutti, dottori, anestestesista, biologa, infermiere.
Infine, finalmente, l’anestesista mi ha addormentata. E’ una sensazione piacevole, che ormai conosco bene. Prima di addormentarmi, ricordo di aver detto che non riuscivo a respirare bene. Mi hanno risposto che è normale. La vista si è annebbiata e poi… Il nulla.

Quando mi sono risvegliata, naturalmente la prima cosa che ho chiesto è stata: “Quanti?”
Mi hanno risposto che avevano recuperato tre ovociti, tutti e tre maturi e fecondabili. Io non ero molto in me, perciò ho ripetuto la domanda tre volte.
E poi… Mi sono riposata un po’ nella mia stanza, con una bella borsa di ghiaccio sulla pancia. Niente dolori, questa volta, per fortuna.
Io e Marito abbiamo parlato con la biologa, che ci ha spiegto che gli ovociti andavano bene e hanno provato a fecondarli tutti e tre. Il transfer è programmato per lunedì. Nel caso in cui ci siano dei problemi (ovvero, nel caso in cui non ci sia neppure un embrione da trasferire) ci hanno detto che ci avrebbero contattato oggi o domani.

Oggi ho cercato di distrarmi facendo le pulizie di casa. Ma avevo sempre il cellulare con me. Non ho ricevuto nessuna chiamata. Buon segno.
Se anche domani tutto tace, lunedì finalmente i miei bimbi, o bimbo, entreranno nel loro nido.

Dio, ti prego, fa che il telefono non squilli.
Marito dice di spegnerlo.
Non mi sembra una grande soluzione.

P.S. Oggi è l’otto marzo. Nonostante tutto, non me ne sono dimenticata.

Auguri a tutte le donne. A quelle che si vestono con tailleur e tacco a spillo e a quelle che indossano jeans e maglietta. A quelle che si sentono belle e a quelle che odiano la propria immagine allo specchio. A quelle hanno tanti bambini, e  a quelle che ad un figlio non ci pensano neanche lontanamente. A quelle che cercano un figlio disperatamente, a quelle che decidono di abortire. A quelle che fanno sesso, a quelle che fanno l’amore. A quelle che sognano il matrimonio, a quelle che preferiscono rimanere single. Auguri di un futuro migliore, un futuro in cui non saremo più divise tra “sante” e “puttane”, in cui potremo vestirci, amare e vivere come desideriamo. Senza essere giudicate, additate, emarginate. Auguri a tutte noi!
Pubblicato in: La mia storia, Riflessioni

Il nostro pianto

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Immagine di sepulture/is.dead/

Lunedì sono tornata al lavoro. Ero felice, a dire il vero. Pensavo che sarebbe stato bello rivedere i miei colleghi, anche se spesso discutiamo, e riprendere la vita “normale”.
Ma il ritorno alla realtà è stato più brusco di quanto non pensassi. Mi sono ritrovata a dover rispondere alle solite domande stupide, a dover lavorare mentre la testa vagava altrove, a dovermi sforzare per sorridere e recitare come al solito la parte del pagliaccio per non lasciar trapelare quello che provo… Pensavo che sarebbe stato piacevole, forse in un certo senso persino rilassante, tornare a “vivere”… Ma questa può forse dirsi “vita”?

Tutto quello che faccio durante il giorno – alzarmi, guidare, entrare in ufficio, lavorare, chiacchierare, sorridere – lo faccio come se fossi un automa, senza neppure riflettere, perché so che è quello che devo fare, che gli altri si aspettano da me. Tutto quello che vorrei fare, in realtà, è fermarmi e urlare, urlare a squarciagola. Tutto quello a cui riesco a pensare sono quegli embrioncini che mi aspettano, quelle potenzialità di vita che, forse, una vita non l’avranno mai. A cui io forse non riuscirò a donare la vita.

Sabato sono tornata al centro PMA e, come previsto, la ginecologa mi ha detto che il transfer è rimandato al mese prossimo, perché le mie ovaie sono ancora un po’ gonfie, nonostante io mi senta bene. Dovrò aspettare che mi tornino le Malefiche, probabilmente tra il 6 e il 10 dicembre, poi almeno per dodici giorni dovrò impasticcarmi di Progynova e infine, finalmente, potremo fare il transfer, si spera entro Natale. Altrimenti, suppongo, tutto slitterà a gennaio.

Questa notizia non mi ha intristito più di tanto, all’inizio. Ormai sono due anni e mezzo che aspetto il mio bimbo, un’attesa di un altro mese, o anche due, non è di certo una tragedia.

Ma negli ultimi giorni, dopo essere rientrata alla “realtà”, il panico ha cominciato a prendere il sopravvento.

Non so perché, forse è causato dallo scombussolamento ormonale, ma mi sento triste come mai prima. Mi sento molto sola. E mi sono data della stupida per aver creduto di essere felice rientrando in ufficio e rivedendo i miei colleghi. Quelle persone non sanno niente di me, non sanno cosa sto passando, non se lo possono neppure immaginare… E, anche se lo dicessi loro, probabilmente non otterrei nient’altro che critiche e le solite frasi banali che ci fanno tanto incazzare.

Mi sento tanto sola. E tanto stanca. So che non dovrei. Dovrei essere forte. E speranzosa. Tra un mesetto o poco più quei puntini luminosi che amo così tanto entreranno a far parte di me. Avrò un’altra possibilità. Ma, mentre a volte mi sento agguerrita e piena di ottimismo, in questi giorni provo soltanto un grande senso di vuoto.

Oggi ho ricevuto l’ennesimo annuncio di gravidanza. Una conoscente mia e di Marito è incinta. Una ragazza che avrà più o meno la mia età. E’ stato Marito a dirmelo, mentre stavo per uscire dall’ufficio. Sapeva che prima o poi l’avrei scoperto, e non voleva che lo sapessi da altri. Questa notizia è stata la ciliegina sulla torta di una giornata molto triste.

Quando sono uscita dal lavoro, mentre mi incamminavo verso la macchina, nascosta nel buio, ho cominciato a piangere. E ho continuato durante tutto il viaggio in macchina verso casa. E mentre piangevo pensavo che forse quella ragazza avrebbe perso il suo bambino. In fondo, anche le gravidanze “naturali” possono andare male. Questo pensiero ha attraversato la mia mente per un millesimo di secondo, ma in quel millesimo di secondo ho provato un macabro sollievo. Poi mi sono vergognata di me stessa. E ho cominciato a piangere ancora più forte.

In questo periodo le uniche persone che sono riuscite a strapparmi un sorriso o a scaldarmi il cuore sono quelle che ho conosciuto su internet.

Da quando ho aperto questo blog mi capita sempre più spesso di ricevere lettere da parte di donne che soffrono come, e con, me.

Il termine “e-mail” mi ispira freddezza. Preferisco chiamarle “lettere” perché è proprio questo che sono. E ogni volta che una donna mi scrive per raccontarmi la sua storia e per donarmi un abbraccio, seppur intangibile, mi sento un po’ meno sola, e un po’ più triste.

Oggi, mentre piangevo, ripensavo a quelle donne. Alle donne invisibili. Pensavo a quando mi raccontano cos’hanno provato al primo, o all’ennesimo, tentativo di PMA fallito. Pensavo a quando avevo creduto di essere incinta, per poi vedere il mio sogno dileguarsi nel sangue. Pensavo a quanto mi sembrassero forti, loro, e quanto io abbia paura di sperare ancora. E il mio dolore si confondeva con il loro. Oggi ho pianto per me, e per voi. E questa, sicuramente, non è una grande consolazione per nessuno. Noi dovremmo sorridere, non piangere. Noi ci meritiamo di sorridere, non di piangere.

Vi è mai capitato di ascoltare una canzone e pensare che fosse stata scritta proprio per voi, che addirittura voi stessi avreste potuto scriverla, che sono le stesse parole che si celano da tempo immemore nel vostro animo…?

A me sì.

Ultimamente non posso fare a meno di ascoltare questa canzone. E’ “All Alright” dei Fun.

 

I’ve given everyone I know
a good reason to go
I was surprised you stuck around
long enough to figure out
That it’s all alright
I guess it’s all alright.
I got nothing left inside of my chest, but
it’s all alright.
Yeah, it’s all alright.
I guess it’s all alright.
I got nothing left inside of my chest, but
it’s all alright.

Ho dato a tutti quelli che conosco
una buona ragione per andarsene
mi ha sorpreso che tu sia rimasto
abbastanza a lungo per capire
che va tutto bene
Penso che vada tutto bene
Non mi è rimasto più niente nel petto, ma
va tutto bene.
Sì, va tutto bene.
Penso che vada tutto bene.
Non mi è rimasto più niente nel petto, ma
va tutto bene.